LA “COLPA D’IMPRESA” AI SENSI DEL D. LGS. 231/2001: UNA RECENTE SENTENZA DELLA CASSAZIONE

di Massimo Borgobello

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Con la sentenza n. 51455/2023 la Sezione quarta penale della Cassazione ha annullato con rinvio una sentenza della Corte d’appello di Firenze, che confermava la responsabilità ex art. 25 septies del D. Lgs. 231/2011 scaturita dalla morte di un dipendente, con conseguente condanna di alcuni soggetti per omicidio colposo.

La Sezione quarta è partita dalle premesse di diritto, chiarendo un principio consolidato nella giurisprudenza della Cassazione: “la colpa di organizzazione deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli”.

La Sezione quarta prosegue ricordando che l’illecito dell’ente è una fattispecie complessa, di cui il reato presupposto è uno degli elementi essenziali, insieme alla colpa di organizzazione, che rende l’illecito stesso “proprio” dell’ente, in ossequio al principio sancito dall’art. 27 Cost.

Ciò che la Corte afferma, successivamente, è che la mancata adozione e l’inefficace attuazione dei modelli organizzativi costituisce un elemento di prova della sussistenza della colpa di organizzazione, che è il metodo di imputazione soggettiva, ex art. 27 Cost., dell’illecito all’ente.

Il riferimento alla tipicità deve essere inteso nel senso che non integra il fatto tipico dell’illecito dell’ente la mancata adozione o l’inefficace attuazione dei modelli organizzativi.

Il ragionamento è posto in questi termini -che potevano tranquillamente essere più espliciti e chiaramente esposti- perché la Corte vuole affermare, come effettivamente fa, poco dopo, che “il verificarsi del reato non implica ex se l’inidoneità o l’inefficace attuazione” del M.O.G. – modello di organizzazione, gestione e controllo e che quest’ultimo non coincide con il sistema di gestione della sicurezza del lavoro incentrato sul documento di valutazione dei rischi di cui agli artt. 17, 18, 28 e 29 d.lgs. 81/2008.

In altri termini, non c’era comportamento lecito – cioè di organizzazione – che l’ente poteva adottare per prevenire la condotta dei singoli che ha determinato il decesso e, quindi, in ipotesi, il reato presupposto.

Discorso analogo viene svolto con riferimento all’interesse dell’ente alla commissione del reato presupposto.

La Sezione quarta ricorda qui che “la fattispecie dell’illecito dell’ente presuppone una relazione funzionale corrente tra reo ed ente ed altresì una relazione teleologica tra reato ed ente, ricorrente quando il primo è stato commesso nell’interesse del secondo o questo ne ha tratto vantaggio. Ciò è richiesto perché il legislatore nazionale ha ritenuto non sufficiente il mero rapporto di immedesimazione organica; con la previsione del collegamento teleologico, ha escluso che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell’organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo (e, in ipotesi, persino in contrasto con questi ultimi)”.

La Corte, quindi, prosegue motivando nei seguenti termini.

“All’interesse viene per lo più attribuita un’accezione soggettivizzante, nel senso che esso viene inteso come allusivo alla finalità che muove il reo e non alla oggettiva attitudine del reato di concretizzare un’utilità per l’ente. Sicché è al reo che occorre guardare per accertare se quell’elemento ricorre nel caso concreto.

Ciò diversamente dal vantaggio, che è proprio l’utilità che l’ente ricava dal reato commesso”.

In altri termini, l’assunto della Sezione quarta è che il vantaggio dell’ente perseguito dal reo può anche non concretizzarsi in una vera e propria utilità, perché, in ipotesi, consistente nel “risparmio” determinato dalla mancata adozione di misure di sicurezza idonee ad elidere le fonti di rischio cui possono essere esposti i dipendenti.

Detto questo, la Corte ha annullato con rinvio anche in punto responsabilità dell’ente perché, conclusivamente, “si sono evocati obblighi facenti capo al datore di lavoro invece che profili di colpa della società incolpata”.

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