LA CEDU BACCHETTA L’ECCESSIVO FORMALISMO IN CASSAZIONE

di Antonio Volanti

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Il principio di autosufficienza.

Lo spauracchio di ogni avvocato che si appresta a predisporre un ricorso dinanzi alle sezioni civili della Corte di Cassazione è la censura di inammissibilità per motivi formali.

La violazione del principio dell’autosufficienza del ricorso, infatti, costituisce uno dei motivi più ricorrenti invocati dalla Corte di Cassazione per dichiarare inammissibile il ricorso.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione per il principio di autosufficienza occorre che dal contesto dell’atto di impugnazione emergano gli elementi indispensabili ad una adeguata cognizione dei termini della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalle parti, senza che sia necessario attingere ad altre fonti per una immediata e precisa cognizione di essi, ivi compresa la sentenza impugnata, così da acquisire un quadro degli elementi fondamentali in cui si colloca la decisione censurata e i motivi delle doglianze prospettate

Il reiterarsi di provvedimenti di inammissibilità ha condotto gli avvocati a predisporre ricorsi di decine (a volte centinaia) di pagine nei quali ritrascrivere i documenti, gli atti ed i provvedimenti dei precedenti gradi di giudizio spesso anche per intero.

La contraddittorietà nell’applicazione del principio.

L’applicazione del principio di autosufficienza da parte della Corte di Cassazione non tiene conto dell’obbligo, sancito dal codice di procedura a pena d’improcedibilità, di depositare insieme al ricorso la copia autentica della sentenza o della decisione impugnata e gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda.

A queste previsioni si aggiunge l’obbligo per il ricorrente di depositare, insieme col ricorso, anche la richiesta vistata dalla cancelleria di trasmissione alla Corte di Cassazione del fascicolo d’ufficio.

La contraddizione, però, non è solamente rispetto alle norme processuali vigenti.

Infatti, in alcune pronunce, la Corte di Cassazione non ha mancato di dichiarare inammissibili i ricorsi troppo lunghi e prolissi.

Ciò a riprova che il tasso di formalismo nel nostro sistema giuridico è ancora molto (troppo) alto.

Ciò, peraltro, costituisce uno dei principali motivi per i quali il nostro ordinamento non è “concorrenziale” rispetto a quello degli altri paesi anche europei.

L’intervento della CEDU.

Sull’eccessivo formalismo dei giudici della Cassazione è intervenuta la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) la quale, con una sentenza del 28 ottobre 2021 (giudizio n. 55064/11 - Succi contro Stato italiano), ha condannato l’Italia per l’interpretazione eccessivamente formalistica dei criteri di redazione dei ricorsi in Cassazione in violazione del diritto di accesso al giudice previsto dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Già in precedenza, con la sentenza del 15 settembre 2016 (giudizio n. 32610/07 - Trevisanato contro Stato italiano), la CEDU si era espressa a proposito del ricorso per Cassazione.

In tale occasione la CEDU aveva ritenuto che la condizione di ammissibilità del ricorso in Cassazione consistente - secondo la normativa in vigore all’epoca della presentazione del ricorso - nella formulazione di un quesito di diritto che permettesse di individuare il contenuto del ricorso e il ragionamento della parte non integrasse la violazione dell’art. 6 cit., sotto il profilo del diritto di accesso ad un tribunale, in quanto essa non costituiva una lesione sproporzionata al diritto a un tribunale non comportando alcuno sforzo particolare supplementare da parte del ricorrente.

Questa volta, invece, la Corte ha sanzionato l’Italia ritenendo che i criteri di redazione richiamati dalla Corte di Cassazione per la proposizione dei ricorsi attribuiscono un peso sproporzionato alla forma a scapito della sostanza.

Ciò comporta la violazione del diritto di accesso al giudice che deve essere concreto ed effettivo e non teorico e illusorio.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione aveva dichiarato inammissibile il ricorso perché il ricorrente:

  •  non aveva richiamato per ciascun motivo di ricorso uno dei cinque casi previsti dall’art. 360 c.p.c.;
  • non menzionava gli elementi necessari per individuare i documenti menzionati a sostegno delle critiche formulate nei motivi.

Su tali aspetti la CEDU non ha condiviso la pronuncia di inammissibilità della Suprema Corte in quanto ha ritenuto che:

  • quest’ultima era stata posta in grado, con la lettura della rubrica del singolo motivo proposto, di sapere quale disposizione di legge era richiamabile;
  • quando l'impugnazione: (i) si riferiva alla sentenza di appello, essa richiamava la motivazione della sentenza riprodotta nelle premesse nei passaggi pertinenti; (ii) citava documenti del giudizio di merito, ne erano stati trascritti i brevi passaggi pertinenti con riferimento al documento originale, consentendo così di identificarlo tra i documenti depositati in Cassazione.

La CEDU ha bacchettato la Corte di Cassazione per aver dimostrato un formalismo eccessivo che non può essere giustificato alla luce della finalità specifica del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione e quindi dell'obiettivo perseguito, vale a dire la garanzia della certezza del diritto e della corretta amministrazione della giustizia.

La CEDU ha ritenuto, nel caso specifico sottoposto alla sua attenzione, che la lettura del ricorso per Cassazione avrebbe dovuto permettere alla Suprema Corte di comprendere l'oggetto e lo svolgimento della controversia dinanzi ai giudici del merito, nonché la portata dei motivi, sia nella loro base giuridica (il tipo di critica alla luce dei motivi di ricorso previsti dall'articolo 360 c.p.c.) sia nel loro contenuto, mediante i riferimenti ai passaggi della sentenza della Corte d'appello e ai documenti pertinenti citati nell'impugnazione.

LA CEDU ha concluso ritenendo che vi sia stata, quindi, lesione del giusto equilibrio tra il rispetto degli obblighi formali e il diritto di accesso


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