LA DISCIPLINA DEL CONFLITTO D’INTERESSI NELL’ORDINAMENTO FORENSE

di Antonino Galletti

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La disciplina del conflitto d’interessi nell’ordinamento forense è disciplinata nel Titolo secondo del vigente codice deontologico, dedicato a “i rapporti con il cliente e con la parte assistita”.

In particolare, subito dopo il canone deontologico afferente la disciplina dell’incarico professionale (art. 23), l’art. 24 è dedicato al “conflitto di interessi” e prevede che:

  1. L’avvocato deve astenersi dal prestare attività professionale quando questa possa determinare un conflitto con gli interessi della parte assistita e del cliente o interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale.
  2. L’avvocato nell’esercizio dell’attività professionale deve conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni o condizionamenti di ogni genere, anche correlati a interessi riguardanti la propria sfera personale.
  3. Il conflitto di interessi sussiste anche nel caso in cui il nuovo mandato determini la violazione del segreto sulle informazioni fornite da altra parte assistita o cliente, la conoscenza degli affari di una parte possa favorire ingiustamente un’altra parte assistita o cliente, l’adempimento di un precedente mandato limiti l’indipendenza dell’avvocato nello svolgimento del nuovo incarico.
  4. L’avvocato deve comunicare alla parte assistita e al cliente l’esistenza di circostanze impeditive per la prestazione dell’attività richiesta.
  5. Il dovere di astensione sussiste anche se le parti aventi interessi confliggenti si rivolgano ad avvocati che siano partecipi di una stessa società di avvocati o associazione professionale o che esercitino negli stessi locali e collaborino professionalmente in maniera non occasionale.

Circa il trattamento sanzionatorio, l’ultimo comma della disposizione in commento ha previsto che “6. La violazione dei doveri di cui ai commi 1, 3 e 5 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni. La violazione dei doveri di cui ai commi 2 e 4 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura”.

Di recente, la giurisprudenza domestica - Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Napoli, rel. Napoli), sentenza n. 217 del 25 ottobre 2023 - è intervenuta sul tema ed ha affermato il principio secondo il quale l’illecito (c.d. di pericolo) tutela l’affidamento della collettività̀ sulla capacità degli avvocati di fare fronte ai doveri che l’alta funzione esercitata impone.

Infatti, il divieto di prestare attività professionale in conflitto di interessi anche solo potenziale (art. 24 del codice deontologico forense, già art. 37 codice previgente) risponde all’esigenza di conferire protezione e garanzia non solo al bene giuridico dell’indipendenza effettiva e dell’autonomia dell’avvocato, ma, altresì̀, alla loro apparenza (in quanto l’apparire indipendenti è tanto importante quanto esserlo effettivamente), dovendosi in assoluto proteggere, tra gli altri, anche la dignità̀ dell’esercizio professionale e l’affidamento della collettività̀ sulla capacità degli avvocati di fare fronte ai doveri che l’alta funzione esercitata impone, quindi a tutela dell’immagine complessiva della categoria forense, in prospettiva ben più ampia rispetto ai confini di ogni specifica vicenda professionale.

Conseguentemente:

  1. poiché si tratta di un valore (bene) indisponibile, neanche l’eventuale autorizzazione della parte assistita, pur resa edotta e, quindi, scientemente consapevole della condizione di conflitto di interessi, può valere ad assolvere il professionista dall’obbligo di astenersi dal prestare la propria attività;
  2. poiché si intende evitare situazioni che possano far dubitare della correttezza dell’operato dell’avvocato, perché si verifichi l’illecito (c.d. di pericolo) è irrilevante l’asserita mancanza di danno effettivo.

Con riferimento specifico all’applicazione in concreto dei cennati principi nell’ambito del diritto delle famiglie, nella sentenza in commento, il Consiglio nazionale ha poi chiarito che è vietato assistere un coniuge o convivente contro l’altro, dopo averli assistiti entrambi in controversie familiari.

Infatti, l’art. 68 del codice deontologico (già art. 51 codice previgente) vieta al professionista, che abbia congiuntamente assistito i coniugi o i conviventi more uxorio in controversie familiari, di assumere successivamente il mandato per la rappresentanza di uno di essi contro l’altro.

Tale previsione costituisce una forma di tutela anticipata al mero pericolo derivante anche dalla sola teorica possibilità di conflitto d’interessi, non richiedendosi specificatamente l’utilizzo di conoscenze ottenute in ragione della precedente congiunta assistenza; pertanto, il canone deontologico non richiede che si sia espletata attività defensionale o anche di rappresentanza, ma si limita a circoscrivere l’attività nella più ampia definizione di assistenza, per l’integrazione della quale non è richiesto lo svolgimento di attività di difesa e rappresentanza, essendo sufficiente che il professionista abbia semplicemente svolto attività diretta a creare l’incontro delle volontà seppure su un unico punto degli accordi di separazione o divorzio.


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