La previdenza che tutti vorremmo

di Marcello Adriano Mazzola

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Nel fare ciò essi indicano i presunti vizi delle fonti che regolano la materia previdenziale forense: “i contributi minimi obbligatori slegati completamente da qualsiasi parametro reddituale sono palesemente in contrasto con l’art. 53 della costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva”, “I contributi minimi obbligatori sono violativi dell’art. 3 della costituzione, perché creano discriminazione tra coloro i quali hanno un reddito superiore ai 10 mila euro e coloro che hanno un reddito inferiore a tale soglia”, “viola il principio costituzionale della libertà delle professioni intellettuali (art. 33 Cost.), che subordina l’esercizio delle stesse al superamento dell’esame di Stato, senza alcun altro vincolo o parametro, tanto meno reddituale.”.
Tali censure, - espresse anche con un fervore ed un livore che non di rado sfociano nella palese violazione del Codice Deontologico Forense, travalicando ampiamente il fondamentale diritto di critica e tipizzando vari illeciti deontologici -, sono comunque nel merito utili per aprire un proficuo dibattito (sempre utile se costruttivo e segno tangibile dello stato di una democrazia, anche endogena) che potremmo così riassumere: quale modello previdenziale vorremmo?
Eviterò di essere troppo tecnico, così limitando al minimo l’uso (e dunque l’abuso) di termini previdenziali, al fine di mantenere la discussione sul versante dei meri principi generali. Come noto il nostro sistema previdenziale pubblico (in senso lato) è a ripartizione, mentre quello privato (per costruire il c.d. secondo pilastro) è a capitalizzazione.
Iniziamo con l’escludere modelli o sistemi o schemi previdenziali irragionevoli od illegittimi, peraltro comunque evocati ancora oggi, esplicitamente o implicitamente da alcuni contestatori:


a) tutela previdenziale facoltativa (ossia, verso i contributi per garantirmi una pensione solo se lo desidero): non è ammessa nel nostro ordinamento al pari di tutti gli Stati, poiché priverebbe le persone di sostegno e futuro nella terza età e, atteso che si invocano principi costituzionali pare davvero che l’art. 38 Cost. sia puntuale e non si possa gerarchicamente flettere rispetto all’invocato art. 33 Cost. nemmeno interpretato con il liberismo più sfrenato;
b) tutela previdenziale gratuita o quasi: non è prevista nel nostro ordinamento forense; c) facoltà di versare i contributi ad un Ente previdenziale a mia scelta: tale facoltà per l’avvocato iscritto all’albo è venuta meno (per il primo pilastro) a seguito dell’entrata in vigore della legge professionale forense; d) facoltà di versare i contributi a Cassa Forense, scegliendo però quali versare tra essi: tale facoltà (distinguendo tra i contributi, a seconda della loro natura, se di maternità, minimi obbligatori, integrativi, tra quelli che assolvono alla funzione pensionistica e quelli che assolvono alle funzioni assistenziali etc.) è esclusa poiché creerebbe anche gravi scompensi di copertura e sostenibilità.
Iniziano così a cadere alcune tesi prima invocate (e riportate).
La “libera professione forense” (sempre più irrigidita e regolamentata dal legislatore che da un lato ha finto di volerla liberalizzare col mantra del principio della libera concorrenza e dall’altro l’ha gravata di ogni adempimento, peso, responsabilità possibile, svuotando contestualmente l’area giudiziale in cui opera prevalentemente l’avvocatura) non può equivalere alla libertà di esercitarla sino all’estremo di costruirsi un proprio modello previdenziale anche rinunciandovi, sino a cucirsi addosso un abito sartoriale su misura. Ciò non è consentito nell’Inps e non è ammesso in nessuna delle c.d. Casse private (tra cui la nostra). Certo non per il primo “pilastro”.
L’obbligazione del versamento dei contributi (dunque tanto per l’entità quanto, se vogliamo, per la periodicità nell’adempiere a tale versamento) assolve a varie funzioni, tra cui certamente quella di garantire un adeguato livello di copertura della propria pensione (ed i contributi minimi assolvono in tal senso, pure previsti dall’Inps) ed al contempo allo scopo di assicurare la sostenibilità dell’Ente chiamato a garantire tale sistema “a ripartizione” in equilibrio (sostenibilità, pretesa dal legislatore in pochi anni da 15 a 30 e poi a 50 anni, rasentando il calcolo attuariale previsioni di magia nera!).


Il nostro sistema previdenziale purtroppo non nasce oggi. Non siamo nell’anno 0. Se così fosse potremmo essere tutti concordi nell’abbracciare in seno ad esso un modello contributivo (tanto si versa, in percentuale al reddito, tanto ti sarà restituito in proporzione in pensione; se desideri garantirti un’assistenza dovrai versare qualcosa in più o la pagherà la clientela attraverso il contributo integrativo o in alternativa te la costruisci al di fuori).
Un modello così sarebbe certamente perfetto: nessun debito previdenziale arretrato e ognuno si disegni e alimenti la propria pensione, senza gravare sugli altri. Ma un sistema così creerebbe comunque un disagio sociale: infatti se versi poco, perché hai guadagnato poco durante la vita lavorativa (ed anche perché sei stato sfortunato o ti sei ammalato o hai avuto tragedie familiari etc.), prenderai poco e dunque saranno fatti tuoi!
E’ giusto dunque porsi un primo quesito: vogliamo la solidarietà categoriale o non la vogliamo?
Anticipo sin d’ora un secondo quesito che subito potrebbe essere opposto al primo: perché i contribuenti (i c.d. attivi) oggi e per molti anni a venire dovranno pagare parte delle pensioni dei colleghi pensionati (c.d. passivi)?
La Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense ha oramai 63 anni, dapprima pubblica poi divenuta privata (ma secondo la giurisprudenza amministrativa più recente è di fatto sempre pubblica, senza nemmeno però porsi il problema di quanto ci costi questa beffa, dovendo i nostri iscritti pagare doppiamente, atteso che mentre Cassa Forense non gode di alcun finanziamento pubblico, noi versando al fisco copriamo pure le voragini dell’Inps!), ha in origine disegnato la previdenza e l’assistenza su di un modello retributivo, che in passato ha garantito un livello di copertura anche solo del 50%. Poi grazie alle riforme varate negli ultimi anni dal Comitato dei Delegati (anche per garantire la sostenibilità via via aumentata, scriviamolo), tale livello è vieppiù stato incrementato sino a raggiungere quasi il 100%.


Il nostro modello è un modello costruito intorno al principio di solidarietà, secondo il quale chi ha redditi maggiori versa di più e chi ha redditi minori potrà godere di pensioni comunque adeguate, anche grazie a chi ha versato di più. Tale principio intacca i percettori di redditi superiori ad € 98.000 ed i pensionati di vecchiaia che versano il 7% del soggettivo senza godere di prestazioni sinallagmatiche.
Certamente l’avvocatura in questi decenni non ha saputo (o voluto) cogliere in tempo il profondo cambiamento che stava segnando (inesorabilmente, definitivamente) e investendo come uno tsunami l’avvocatura: dal 1985 ad oggi si è passati da circa 45.000 avvocati a 225.000. Ed anche grazie a chi ha reso l’esame di Stato una farsa dividendo le Commissioni d’esame tra quelle rigorose e quelle permissive, oppure grazie a chi non ha vigilato affatto sulla tenuta deontologica.
Insomma, l’avvocatura non è stata lungimirante (o non lo è voluta essere), è stata profondamente conservatrice, si è voluta garantire privilegi senza porsi il problema di chi li avrebbe pagati. Si è così resa debole e si è esposta alle intemperie (lobbistiche) del legislatore. Ed il risultato è quello che ben conosciamo: una metamorfosi devastante. Un abisso che segna chi indossa la toga dagli anni ’90 in poi rispetto a chi la indossava prima. Un abisso temporale ed esistenziale.
Tornando alla previdenza, gli organi collegiali di Cassa Forense (dunque, - giova ricordarlo ai contestatori che pensano di avere la soluzione in tasca, quasi che la previdenza possa essere sintetizzata in un asettico modello matematico – composti da delegati eletti dall’intera avvocatura italiana, omogenei e ben rappresentativi delle diverse anime e realtà, geografiche, storiche, reddituali, sociali, generazionali) hanno in questi anni - dopo un lungo, tormentatissimo ma anche condiviso lavoro (con i Coa e con le associazioni forensi) – deliberato di non resettare il modello retributivo ma di modificarlo, avvicinandolo assai al modello contributivo, così da non sacrificare il principio di solidarietà.


E’ stata una scelta di merito ma anche socio-politica, finalizzata a non impattare sulla fascia più debole dell’avvocatura (oramai quasi maggioritaria). Ossia proprio il contrario di ciò che sostengono alcuni contestatori. La scelta è stata compiuta nel ristretto margine della sostenibilità, dovendo garantire all’Ente almeno 50 anni di sostenibilità.
Nel giro di pochi anni pertanto la previdenza forense ha visto elevare il quantum dei contributi ma al contempo realizzando principi prima disattesi o ignorati: una ben maggiore sostenibilità (ora di 50 anni); il calcolo della pensione su tutta la vita lavorativa e non su quelli più produttivi (escamotage e regola del passato che tanto male ha fatto, minando il rapporto intergenerazionale); un vero welfare (il nuovo Regolamento dell’Assistenza è stato appena approvato a gennaio dal Comitato dei Delegati, ora sub judice dei Ministeri vigilanti); una maggiore tutela per i colleghi più deboli (attraverso il Regolamento ex art. 21 ed ora appunto con l’assistenza).
Tutto questo mantenendosi nel recinto di aliquote contributive sopportabili (14%), seppur con l’obbligo di versare contributi minimi il cui importo è calcolato in misura tale da consentire alla Cassa di liquidare in futuro comunque pensioni sufficientemente dignitose (oltre che a dover garantire la sostenibilità dell’Ente).
Chi invoca a squarciagola il modello contributivo come salvifico ed equo non racconta dunque quattro aspetti fondamentali: a) una aliquota “contributiva” sarebbe (per noi) simile a quella pretesa dall’Inps per la gestione separata (pari al 30,72% e con l’aumento previsto graduale al 33,72% nel 2018; dunque l’attuale nostra aliquota sarebbe almeno raddoppiata), senza contare peraltro l’assistenza che avrebbe costi aggiuntivi; b) il “contributivo” comunque pretende il pagamento di contributi minimi; c) il “contributivo” è gradevole se alimenta pensioni gradevoli, diversamente realizza un’amara sorpresa; d) il “contributivo” non appiana certo la disparità di trattamento intergenerazionali tra il prima e il dopo.


Vige difatti nel nostro ordinamento “previdenziale” il principio del pro rata e soprattutto l’ipocrita discussione sui c.d. diritti acquisiti, che altro non sono se non “privilegi acquisiti”. La cui discussione il Comitato dei Delegati ha negli ultimi anni sfiorato attraverso lo strumento del contributo di solidarietà, da ultimo però censurato (dal Giudice delle Leggi, ancorché non in modo tombale).
Sicché, riassumendo, il modello contributivo non può essere venduto come la panacea, poiché deve calarsi in un Ente previdenziale non nuovo ma con alle spalle ben 63 anni di storia (e dunque con decine di migliaia di pensioni erogate ed erogande). Non esistono dunque verità assolute, modelli perfetti ma diverse prospettive. Ed ogni prospettiva, calata su di un essere vivente e datato, deve confrontarsi con le cicatrici realizzatesi nel tempo.
Oggi è curioso e pernicioso attaccare Cassa Forense (che pure certo nel tempo rivedrà e modificherà alcune scelte fatte nel passato) solo perché ha varato un Regolamento ex art. 21 (come prescritto dal legislatore), scelta effettuata nel precipuo intento di consentire ai colleghi con redditi inferiori a € 10.300 ma con determinati requisiti di anzianità (8 anni, proprio per sostenere chi inizia, nel cammino più delicato ed impervio) di garantirsi l’esercizio della professione versando anche solo € 800/annui.
Non ci si può lamentare di esser stati ingannati sol perché un tale versamento consentirà di coprire solo un semestre (infatti si può ben avere il riconoscimento dell’anno, versando il doppio) e non l’annualità, oppure censurando la Cassa di non essersi occupata anche dei colleghi che hanno più di 8 anni di iscrizione (facendo pagare progressivamente al reddito), perché si dimentica che la Cassa deve garantire un adeguato livello di copertura delle pensioni e pensioni dignitose. Al di sotto del livello dei contributi minimi ciò non è possibile.
Cassa Forense ha scelto di agevolare le fasce più deboli ma ha dovuto contestualmente far quadrare i conti. Un equilibrio che non è un vezzo ma una necessità.


Cassa Forense non auspica alcuna cancellazione dagli albi degli avvocati ma ha dovuto fare scelte indicate dal legislatore, correggendo vuoti normativi aberranti (per anni chi è stato iscritto agli albi si è sottratto alla copertura previdenziale), nell’interesse di tutti. E i tutti assorbono pure gli interessi dei pochi, concetto questo difficile da comprendere in seno ad una categoria fortemente individualistica.
I veri nodi da affrontare saranno invece quelli di: ricondurre i diritti acquisiti verso la sostenibilità delle nuove generazioni; sviluppare nuovi orizzonti professionali per l’avvocatura; migliorare la propria veste professionale (più tecnologia, più lingue, più specializzazione, più interdisciplinarità, più stragiudiziale etc.). Non ultimo, di sentirsi una vera e propria categoria. Unita, compatta e dignitosamente forte.

Avv. Marcello Adriano Mazzola – Delegato di Cassa Forense

 

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