Pensione indiretta e di reversibilità per i figli studenti universitari

di Marcello Bella

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L’art. 82 del D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 – concernente le pensioni dei dipendenti statali, richiamato dal predetto art. 7 della legge 576/1980, come novellata – dispone che sono equiparati ai minorenni gli orfani maggiorenni “iscritti ad università o ad istituti superiori equiparati, per tutta la durata del corso legale degli studi e, comunque, non oltre il ventiseiesimo anno di età”; la locuzione è dunque pressoché analoga a quella contenuta nella disciplina previdenziale forense poiché viene prevista, a favore dei figli superstiti a carico del genitore al momento del decesso e non svolgenti attività professionale retribuita, ma iscritti ad Università od Istituti superiori equiparati, l’erogazione di un trattamento pensionistico.

Giova peraltro rilevare che l’art. 1, comma 41, della legge 8 agosto 1995, n. 335 ha stabilito che “la disciplina del trattamento pensionistico a favore dei superstiti di assicurato e pensionato vigente nell’ambito del regime dell’assicurazione generale obbligatoria è estesa a tutte le forme esclusive o sostitutive di detto regime” e, pertanto, a decorrere dalla data di entrata in vigore della predetta legge le norme in materia vigenti per l’assicurazione generale obbligatoria si applicano anche al settore dei dipendenti pubblici (in tal senso, circolari Inpdap del 30 novembre 1995, n. 62 e del 29 marzo 1996, n. 21 e, recentemente, Corte Cost., 28 marzo 2008, n. 74).


Al di là della specifica previsione contenuta nella previdenza forense, la ratiodella norma, di carattere generale, concernente il diritto alla pensione anche in favore dei figli studenti universitari è da ravvisare, ad avviso del giudice delle leggi, nell’art. 34 della Costituzione, poiché, “se questa norma proclama il diritto allo studio e l’impegno della Repubblica a renderlo effettivo fino al raggiungimento dei gradi più alti, ciò può realizzarsi in modo efficiente ove sia dedicato a tale impegno intellettuale tanto tempo da lasciare ben poco (o addirittura nessuno) spazio all’espletamento di altro lavoro redditizio” (Corte Cost. 10 giugno 1993, n. 274).


In altri termini, si tratta di una tutela in favore di “quei figli che, non possedendo redditi sufficienti a renderli autonomi, neppure sono in grado di procurarseli a motivo della condizione di inabili ovvero (come nel presente caso) della loro dedizione agli studi”.

La Consulta, con la decisione in esame, nel prendere atto della ratio normativa, non condivide tuttavia la scelta del legislatore di riconoscere il diritto a pensione sulla base della sola iscrizione all’università, poiché, “se la ratio del riconoscimento della pensione di reversibilità è, come si è osservato, il perdurare dalla vivenza a carico dei figli maggiorenni infraventiseienni per l’impossibilità di procurarsi un sufficiente reddito proprio attraverso un lavoro retribuito a causa della dedizione del loro tempo disponibile agli studi, sarebbe peraltro logico esigere, da parte del legislatore, non soltanto l’iscrizione alle scuole o all’università, ma anche l’effettività della frequenza ed il profitto nel rendimento.

Va rilevato infatti che la disposizione costituzionale (art. 34, 3° comma, Cost.) riconosce il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi ai «capaci e meritevoli», la cui valutazione, come si ricava anche dai lavori preparatori della Costituzione, implica un riscontro relativamente al «profitto». Ciò varrebbe ad escludere, fra l’altro, che la tutela finisca per incoraggiare i casi di tante formali iscrizioni seguite da un inadeguato (o nessuno) impegno. Per la scuola media e professionale, la disposizione impugnata richiede che i figli «frequentino», mentre per gli universitari essa si limita a richiedere il requisito della mera «iscrizione»: altre norme, al contrario (ad esempio quella relativa al rinvio del servizio di leva, contenuta nell’art. 19, 3° comma, l. 31 maggio 1975 n. 191) prevedono un agevole sistema di controllo dell’effettiva dedizione, sia pure limitata, agli studi universitari”.

Conclude la Consulta affermando, comunque, che, “tuttavia, non spetta alla Corte costituzionale, bensì al legislatore, adottare soluzioni analoghe a quelle indicate” (in senso conforme, Corte Cost., 28 novembre 1994, n. 406, che ha altresì precisato che “la durata della pensione non va oltre lo stesso periodo legale della facoltà cui gli studenti sono iscritti” e che “la ratio dell’erogazione della pensione e della sua prosecuzione risiede, più che nella giovane età degli orfani, nella concreta impossibilità di procurarsi un reddito proprio a motivo della dedizione del loro tempo agli studi”).


Anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri, costituitasi con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato nel giudizio di legittimità costituzionale conclusosi con la pronuncia del 1994 sopra riportata, ha rilevato, in armonia con la Corte, che non ci si può spingere a riconoscere il trattamento di reversibilità a chi risulta semplicemente iscritto all’università sino al compimento del 26° anno di età, senza correttivi connessi ai risultati di merito e di frequenza.


Ciò posto, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto, in proposito, che il significato della disposizione legislativa è quello di assicurare “il diritto alla prestazione oltre il compimento della maggiore età agli studenti che siano iscritti a corsi universitari per la sola durata del corso legale e non oltre i 26 anni. In altri termini, se è vero che non rileva la qualità di studente fino a quando permane il titolo alla prestazione costituito dalla minore età, nel momento stesso in cui tale titolo cessa e subentra l’altro, fondato nella sua qualità di studente universitario, è necessario che non sia stata superata la durata massima del corso di studi indipendentemente dall’epoca di inizio degli studi stessi” (Cass., Sez. Lavoro, 1° luglio 1999, n. 6716).

ùSempre lo stesso giudice ha affermato il principio che il diritto alla pensione di reversibilità a favore di figli superstiti, se studenti universitari, si perde sia al compimento del ventiseiesimo anno di età, sia al compimento della durata del corso legale della facoltà necessaria per il conseguimento della laurea.

Lo studente che non abbia conseguito la laurea entro la durata del corso legale, se intende proseguire gli studi oltre tale durata non viene iscritto "regolarmente" al corso universitario, ma viene iscritto "fuori corso", ossia con una iscrizione che è al di fuori del "regolare corso universitario" (Cass., Sez. Lavoro, 11 novembre 1998, n. 11390).

Le norme dell’ordinamento previdenziale, in armonia alla disposizione costituzionale di cui al secondo comma dell’art. 34 della Costituzione, che riconosce soltanto ai soggetti capaci e meritevoli il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, attribuiscono la pensione di reversibilità ai figli superstiti universitari soltanto per tutta la durata del corso legale della facoltà, sulla presunzione che soltanto il conseguimento della laurea in corso sia la condizione universitaria meritevole di tutela; “nella disciplina della perdita del diritto alla pensione di reversibilità non poteva, perciò, il legislatore mettersi in contrasto con tale "ratio legis" attribuendo il diritto alla pensione di reversibilità anche agli studenti universitari "fuori corso"” (Corte Cass., Sezione Lavoro, 11 novembre 1998, n. 11390, cit.).

Avv. Marcello Bella – Dirigente dell’Ufficio legale di Cassa Forense

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