Il rischio di contagio per Covid 19 in carcere giustifica la detenzione domiciliare del detenuto affetto da gravi patologie

di Lorena Puccetti

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L’attuale emergenza ha imposto specifiche misure, volte ad evitare la diffusione dell’epidemia di coronavirus, le quali sono del tutto inattuabili all'interno del carcere.

Infatti, il  sovraffollamento, le difficoltà di procedere alla completa sanificazione degli ambienti, e le carenze igieniche possono favorire il dilagare del contagio fra la popolazione carceraria. 

Per arginare tale drammatica situazione, che espone ad un pericolo mortale i detenuti specie se in già precarie condizioni di salute, è stato invocato da più fronti un provvedimento legislativo emergenziale diretto a diminuire il numero dei reclusi in carcere.

Risponde a tale obiettivo l’art. 123 del d.l. 17 marzo 2020 il quale prevede che la pena detentiva non superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, previa richiesta possa essere eseguita presso il domicilio del detenuto

Tuttavia, tale norma non appare risolutiva in chiave di deflazione della comunità carceraria per molte ragioni.

In primo luogo, il decreto legge esclude dalla detenzione domiciliare i detenuti condannati per una serie di reati fra i quali i reati ostativi di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario.

Inoltre, in base alla previsione normativa, la detenzione domiciliare richiede l’applicazione dei braccialetti elettronici, mezzi che non sempre sono a disposizione dei singoli istituti penitenziari. A ciò si aggiunga che il decreto si rivolge ai soli detenuti con condanna definitiva, trascurando completamente la carcerazione derivante da misure cautelari.

Infine, ed è il profilo critico più rilevante, il meccanismo individuato dalla manovra lungi dall'essere automatico, presuppone la decisione del giudice con conseguente allungamento dei tempi di scarcerazione.  

Supplendo a tale deludente intervento normativo, la Magistratura di sorveglianza ha assunto un ruolo attivo nella gestione dell’emergenza facendo ricorso per quanto possibile alle misure alternative al carcere previste dalla legislazione penitenziaria. In tale panorama, si inserisce una recente pronuncia del Tribunale di sorveglianza di Milano che ha preso posizione sul rischio di contagio nell’ambiente carcerario.

Al riguardo, il magistrato di sorveglianza aveva rigettato l’istanza di detenzione domiciliare sostenendo da un lato che il detenuto scontava una pena per reati ostativi di cui all’art. 4-bis ord. pen. e al contempo che le sue precarie condizioni di salute non apparivano incompatibili con il regime carcerario.

Il Tribunale di Sorveglianza di Milano, riformando tale decisione,  ha accolto l’istanza di detenzione domiciliare in applicazione degli artt. 147 comma 1 n. 2 c.p. e 47-ter comma 1-ter ord. pen. 

Limitandoci ad un mero accenno, l’art. 147 c.p. consente di disporre il rinvio dell’esecuzione della pena ovvero la sua sospensione allorché il detenuto versi in condizioni di “grave infermità fisica” e purché vi sia una prognosi negativa in merito al rischio di recidiva.

Qualora, pur ricorrendo il predetto stato di infermità, residui un margine anche ridotto di pericolosità sociale e quindi di necessità rieducativa del condannato, in luogo del differimento della pena l’art. 47-ter comma 1-ter ord. pen. prevede la c.d. detenzione domiciliare “surrogatoria” per la quale si ritiene non operino le preclusioni ex art. 4-bis.

E’ evidente che attraverso tali norme l’ordinamento persegue il raggiungimento del difficile equilibrio tra le funzioni affidate alla pena detentiva, fra le quali l’indefettibilità della pena a la sicurezza sociale, e l’esigenza che il condannato riceva un trattamento ispirato a criteri di umanità. In applicazione di questi principi, rilevando le problematiche cardiache e respiratorie aggravate dall’età del detenuto, e ritenendo che «tali patologie possano considerarsi gravi ai sensi dell’art. 147 c.p. con specifico riguardo al correlato rischio di contagio in corso per Covid 19 che appare più elevato in ambiente carcerario che non consente l’isolamento preventivo», il Tribunale ha disposto la detenzione domiciliare. 

Con tale decisione il Tribunale di sorveglianza, nella discrezionalità che le norme richiamate assegnano al giudice nell’accertamento in particolare del problematico requisito della grave infermità, ha dato concreta attuazione ai diritti fondamentali di cui ciascun individuo rimane titolare, anche se detenuto in carcere.   

E’ certamente apprezzabile lo sforzo della Magistratura di sorveglianza chiamata, mediante un’interpretazione di buon senso delle norme di riferimento, a farsi garante della vita e della salute dei condannati. Tuttavia, resta la necessità di un rapido intervento normativo che disponga de plano la scarcerazione per determinate categorie di soggetti al fine di ridurre il sovrannumero dei detenuti rispetto alla capienza degli ambienti penitenziari.

Come è noto, la popolazione carceraria è costretta a vivere in spazi ristretti e fatiscenti, in situazioni di promiscuità e in condizioni che impediscono il rispetto delle più elementari norme igieniche. Ma mentre ai detenuti risulta difficile anche solo lavarsi le mani, parte del mondo politico se ne sta invece lavando le mani.  

Avv. Lorena Puccetti - Foro di Vicenza


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