IL PERIODO DI PRONTA DISPONIBILITÀ (C.D. REPERIBILITÀ) È ORARIO DI LAVORO?
19/03/2021
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La reperibilità si configura, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. 7.9.2011 n.18310), come prestazione strumentale ed accessoria, qualitativamente diversa da quella di lavoro vera e propria, consistendo nell’obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato, al di fuori del proprio orario di lavoro, in vista di una eventuale prestazione lavorativa; ne consegue, per la Suprema Corte, che il tempo nel quale il lavoratore è reperibile non si può considerare orario di lavoro.
Con riferimento al comparto della sanità si è affermato (Cass. 25.2.2011 n.4688; Cons. Stato, sez. VI, 9.9.2009 n.5270) che, non equivalendo ad una effettiva prestazione lavorativa, il servizio di pronta disponibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale limita soltanto, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso e comporta il diritto ad un particolare trattamento economico ma non alla riduzione dell’orario di lavoro.
Sulla problematica se il periodo “in” pronta disponibilità (c.d. reperibilità) possa o meno essere considerato come orario di lavoro, è stato emesso un comunicato stampa dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea n.35/21 del 9.3.2021, con cui si comunica che la Corte di giustizia dell’Unione europea è intervenuta sulla problematica con due sentenze nelle cause C- 344/19 e C-350/19.
In particolare, ha affermato che, se con la reperibilità o pronta disponibilità i vincoli imposti al lavoratore pregiudichino in modo assai significativo la propria facoltà di gestire nel corso di esso, il proprio tempo libero, e quindi viene pregiudicato il tempo libero del dipendente, il periodo di reperibilità è da considerarsi orario di lavoro, indipendentemente dallo svolgimento di un lavoro concreto durante il periodo di reperibilità.
Per la Corte di Giustizia europea, i periodi di guardia o prontezza in regime di reperibilità, rientrano nella nozione di orario di lavoro, qualora i vincoli gravanti sul lavoratore, nel corso di tali periodi, pregiudichino in modo oggettivo e significativo la sua facoltà di gestire liberamente il tempo libero, durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti, e di dedicarsi ai propri interessi.
E’ stato così precisato in quale misura i periodi in prontezza in regime di reperibilità possano essere qualificati come “orario di lavoro” o, al contrario, come “periodi di riposo” alla luce della direttiva 2003/88.
Da quanto innanzi illustrato ne consegue che il periodo durante il quale nessuna attività venga effettivamente esercitata dal lavoratore a beneficio del suo datore di lavoro non costituisce necessariamente un “periodo di riposo”; infatti, un periodo di guardia o prontezza deve essere automaticamente qualificato come “orario di lavoro” nel caso in cui il lavoratore abbia l’obbligo, durante questo periodo, di restare sul luogo di lavoro, distinto dal suo domicilio, e di rimanere ivi a disposizione del datore di lavoro.
Ai fini di valutare se un periodo di guardia o prontezza in regime di reperibilità costituisca “orario di lavoro”, la Corte evidenzia come soltanto i vincoli imposti al lavoratore – indifferentemente – da una normativa nazionale, da un accordo collettivo o dal datore di lavoro del lavoratore stesso, possono essere presi in considerazione.
Invece, le difficoltà organizzative che un periodo di guardia o prontezza può causare ad un lavoratore e che sono la conseguenza di elementi naturali o della libera scelta di quest’ultimo non sono rilevanti.
Spetta, quindi, al “giudice” effettuare una valutazione globale dell’insieme delle circostanze al fine di verificare se un periodo di prontezza in regime di reperibilità debba essere qualificato come “orario di lavoro”, atteso che tale qualificazione non è automatica in assenza di un obbligo di restare sul luogo di lavoro.
Avv. Daniela Carbone - Foro di Ascoli Piceno