L'applicazione dell'art. 96 c.p.c. contro la dignità della difesa

di Marcello Adriano Mazzola

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Il decreto, reso a firma del collegio composto dai giudici Bruno (presidente), D’Aquino (relatore), Mammone (giudice) della seconda sezione del Tribunale di Milano è paradossale. Diviene vieppiù dirompente e assolutamente inedito nel panorama giurisprudenziale, poiché giunge ad applicare la responsabilità processuale aggravata in chiave punitiva (appunto applicando il III comma) spingendosi però ben al di fuori della cornice della stessa norma ed in ogni caso censura una condotta in nessun modo punibile con alcuna norma esistente nel quadro legislativo. Viene così creato il “danno onirico o immaginifico”, nuova frontiera del diritto e dei diritti in un’ottica futuristica alla Blade Runner.
L’attenzione, e lo sdegno, cade sulla parte in cui il collegio giunge a scrivere che “Va osservato come parte opponente abbia depositato la memoria conclusiva autorizzata solo in forma telematica, senza la predisposizione delle copie “cortesia” di cui al Protocollo d’Intesa tra il Tribunale di Milano e l’Ordine degli avvocati di Milano del 26.06.2014, rendendo più gravoso per il collegio esaminarne le difese. Tale circostanza comporta l’applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c. come da dispositivo.” poi giungendo a condannare e liquidare in ragione di ciò € 5.000.
Una deriva questa punitiva ma che trova già eco anche in altri subdoli pseudo provvedimenti giurisdizionali di preventivo ed analogo tenore, in cui (perlomeno sempre a Milano) vari magistrati si sono già ben distinti “disponendo” ai difensori delle parti di depositare “entro il giorno” copia cartacea ovvero di spingersi addirittura sino a richiamarli in udienza al puntuale adempimento di ciò!


2. Cenni al terzo comma dell’art. 96 c.p.c. - L'art. 96 del codice di procedura civile è intitolato "Responsabilità aggravata" ed è è inserito nel Capo IV "Della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali", del Titolo III "Delle parti e dei difensori", del Primo Libro, dedicato alle disposizioni generali, del codice di rito. L'articolo è composto da ben tre commi, ora a seguito della recente modifica avvenuta con la novella del codice di rito ex l. 18.6.2009, n. 69 “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile” che ha appunto aggiunto il terzo comma, non senza creare ambiguità e apparenti distonie con l’intera struttura della norma, di rito e sostanziale. Recita difatti il terzo comma che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.” (art. 96, III co. c.p.c.).
Il terzo comma ha certamente rivoluzionato l’applicazione di tale particolare forma di responsabilità civile, imponendo, secondo l’opinione oramai prevalente, un modello quale quello punitivo non proprio della r.c. italiana ma appartenente ad altri sistemi giuridici, connotando la cultura anglo-americana.
Dottrina e giurisprudenza si soffermano lungamente su un istituto di straordinaria importanza, rafforzato ovviamente in chiave deflativa prima dalla giurisprudenza e appunto da ultimo nel 2009 dal legislatore, a fronte di svariati casi di abuso processuale che certo costituiscono non solo un grave vulnus alla parte processuale ma pure alla collettività intera, aumentando il numero dei processi pendenti sino ad indebolire l’intero sistema giurisdizionale e il diritto alla difesa ex art. 24 Cost.
E sin qua siamo d’accordo poiché l’abuso processuale va puntualmente sanzionato, punito, risarcito. Appunto, l’abuso processuale, non la lesa maestà. Ed ancor meno la supposta lesa maestà come parrebbe emergere dal decreto.


3. Infondatezza e agiuridicità del decreto. - Non è neppure il caso di addentrarsi nei complessi meandri della figura che partecipa alla responsabilità civile, poiché sarebbe ultroneo rispetto alle critiche che si palesano. Critiche non certo sulla opportunità o meno della scelta del collegio di giungere ad applicare ed a riconoscere il danno punitivo in una fattispecie caratterizzata dall’aver “depositato la memoria conclusiva autorizzata solo in forma telematica, senza la predisposizione delle copie “cortesia” di cui al Protocollo d’Intesa [così] rendendo più gravoso per il collegio esaminarne le difese.”. Non si censura l’opportunità ma qualcosa di ben più enorme: l’assoluta infondatezza giuridica e conseguentemente la strumentalizzazione dell’art. 96 c.p.c. per aggredire e mortificare la dignità della difesa. E dunque l’uso (improprio) della clava del danno punitivo per annichilire, stordire, ammansire il diritto alla difesa ex art. 24 Cost.
Un fatto di straordinaria gravità non solo aver scritto un decreto con tale contenuto ma solo averlo pensato.
Chi scrive ritiene di poter conoscere, perlomeno a sufficienza l’art. 96 c.p.c. avendo dedicato ad esso quasi una intera monografia (Mazzola M.A., Responsabilità processuale, Utet, 2013) ed ancor prima analogamente una più breve monografia (Mazzola M.A., Responsabilità processuale e danno da lite temeraria, Giuffrè, 2010). Muoverò dunque critiche non per sentito dire ma perché il collegio applica assolutamente impropriamente l’art. 96 c.p.c., censurando una condotta paraprocessuale (dunque si badi bene, neppure processuale, né tanto meno sostanziale) del difensore (dunque neppure imputabile alla parte) che neppure avrebbe dovuto mai essere sanzionata. Mai.
Il decreto è aberrante. Lo è perché punire la condotta di aver “depositato la memoria conclusiva autorizzata (…) senza la predisposizione delle copie “cortesia” [così] rendendo più gravoso per il collegio esaminarne le difese.” nulla centra con l’art. 96 c.p.c.. La condotta censurata e punita non è una condotta:


(1) punibile, perché non è coperta da alcuna una fonte normativa e/o regolamentare (che sanciscono esattamente l’opposto di ciò che si vuole punire), atteso che il protocollo è un mero gentlemen agreement che per cortesia suggerisce alle parti adempimenti e certo non crea doveri giuridici;
(2) processuale poiché è solo paraprocessuale, poiché attinente ad una modalità di deposito degli atti difensivi e non alla difesa sostanziale e/o processuale vera e propria;
(3) che costituisce un abuso del processo né tanto meno danneggia la parte processuale avversa, né come visto può danneggiare in alcun modo l’organo giudicante;
(4) tale da rendere “più gravoso per il collegio esaminarne le difese” (son privi i giudici di cancelleria? Son soggetti privi di stampante e/o di manualità? Sono privi di arti?);
(5) che investe la parte processuale ma al più esclusivamente quella del difensore mentre l’art. 96 c.p.c. è comunque diretta alla parte processuale.
Un tale decreto costituisce un gravissimo precedente, peraltro tale da connotare la responsabilità civile del magistrato nonché anche quella disciplinare, poiché spinge l’applicazione dell’art. 96 c.p.c. su un versante non solo non voluto dal legislatore ma neppure immaginato. Eppure di questi tempi gli spazi non mancano atteso che il legislatore freme dal desiderio di deflazionare qualsivoglia contenzioso giurisdizionale.
L’auspicio è che al riguardo intervenga duramente e immediatamente l’Organismo Unitario dell’Avvocatura ed anche sul versante istituzionale il Consiglio Nazionale Forense, chiedendo ad Anm di prendere una netta posizione. Posizione necessaria per arginare un’aggressione alla dignità del diritto di difesa. E’ difatti inutile richiamare la nostra veste costituzionale se poi al momento opportuno non siamo in grado di difenderla. E di difenderci. Non ultimo di difendere il sacro principio ex art. 24 Cost. da indebite aggressioni volte a ridurlo al lumicino.
4. L’avvocato tutto fare (toga e cancelleria). - I presupposti di tale decreto affondano a ben vedere nelle responsabilità e nelle condotte e scelte intraprese dall’avvocatura. Scelte fatte certo anche per sopperire alle gravi disfunzioni dell’amministrazione della giustizia o nelle indebite richieste dei magistrati. Quindi anche in buona fede ma senza valutarne le conseguenze. Forse anche posta in condizioni di sudditanza psicologica. Forse per accattivarsi le simpatie della magistratura. Vari i motivi.


L’avvocatura è quindi forse la mandante morale di un tale decreto. Quell’avvocatura che in questi decenni si è resa servile verso la magistratura, accettandone qualsivoglia pretesa, legittima o illegittima che fosse, dimenticando ed ignorando come nelle corti di giustizia debba vigere sempre e comunque la parità tra giudicante e difesa. Parità che pretende appunto pari dignità e pari rispetto.
Invece l’avvocatura ha nei decenni ceduto tale dignità, accettando di svolgere le funzioni di cancelliere nei processi (perché?), di agevolare i magistrati nelle loro funzioni (dotandoli via via di praticanti e scribacchini), non ultimo di integrare le lacune del Processo Civile Telematico sino a siglare “protocolli d’intesa” tali da vanificare la ratio legis che ha condotto (faticosamente, schizofrenicamente) il legislatore a realizzare (ancora incompiutamente peraltro) il PCT. Il cui PCT (giova ricordarlo, che ad oggi ci è costato circa 4 miliardi di €uro in 10 anni, quando bastava indire una gara di appalto ed auspicare che intervenisse Microsoft et similia, e non avremmo il mediocre risultato attuale) è nato per spostare, semplificare, agevolare, snellire tutto il processo civile dal cartaceo al telematico, così avendo a disposizione maggiori risorse (umane ed economiche) per il funzionamento dei processi. Uno di questi principi è dunque “niente carta, sì alla gestione informatica del processo”, anche con un minore impatto ambientale. Ed infatti, come altrove ben sottolineato “Ciò che indigna e rende ancor di più incomprensibile la decisione del Tribunale di Milano è, da una parte, l’obbligo di legge per il quale, dal 30 giugno 2014 per i procedimenti instaurati da tale data e, dal 31 dicembre 2014, anche per i procedimenti già pendenti alla data del 30 giugno 2014, i difensori devono depositare esclusivamente in telematico tutti gli atti endoprocessuali e, dall’altra, l’assoluta mancanza di una norma di legge che disponga ed obblighi il difensore a depositare anche lo stesso atto in forma analogica (cartacea); eppure, proprio dal mancato deposito di quella che viene elegantemente definita “copia di cortesia”, il Tribunale di Milano ha ritenuto “legittimo” condannare (…) sul presupposto che il deposito della “copia di cortesia” era previsto dal protocollo siglato dal locale Tribunale e l’Ordine degli Avvocati di Milano in data 26 giugno 2014 il quale peraltro sul punto non prevede nessuna conseguenza in caso di inosservanza.” (Reale M., PCT: niente copia di cortesia cartacea? Sì a responsabilità aggravata, Altalex, 20 febbraio 2015).


Si aggiunga come in questi anni: a) il Contributo Unificato sia esponenzialmente aumentato, in chiave deflativa e come strumento per risanare le casse dello Stato fallito, così da assicurare ampie risorse economiche al Ministero di Giustizia, che riutilizza solo in minima parte al proprio interno; b) siano state varate pure molteplici riforme volte ad aggravare gli oneri e adempimenti per gli avvocati e a semplificare e snellire quelli per i magistrati (tra gli altri anche il c.d. appello col filtro che induce praticamente i difensori a scrivere la sentenza al posto del collegio!).
Non paghi di tutto ciò gli Ordini hanno discutibilmente pensato (ma ne avranno poi la legittimità?) di offrire ulteriormente i propri servigi siglando con i tribunali di riferimento un gentlemen agreement (ergo un protocollo) per assicurare ai magistrati pure una “copia cortesia cartacea”, come se gli stessi magistrati non siano in grado: a) di leggere gli atti telematici; b) di farsene stampare una copia dalla cancelleria; c) in subordine, di stamparsene una copia in proprio. Tutto ciò mentre gli avvocati adempiono puntualmente ai propri doveri giuridici. Così procedendo gli Ordini hanno creato una bolla di doveri extra-giuridici, bolla della quale la magistratura ora pretende di ricavare obbligazioni il cui inadempimento sarebbe punibile.
Gli Ordini – i tantissimi Ordini che hanno baldanzosamente sottoscritto protocolli - hanno così sbagliato perlomeno tre volte: a) la prima perché hanno fatto rientrare dalla finestra ciò che il PCT ha inteso debellare; b) la seconda perché hanno gravato gli avvocati di un ulteriore adempimento; c) la terza perché pretendono dagli avvocati che continuino a sostituirsi agli inadempimenti della cancelleria (e/o in subordine dei magistrati). Tutto ciò ignorando come il Contributo Unificato, aumentato esponenzialmente, sia tale da poter soddisfare e sfamare qualsivoglia copia cartacea a spese del Ministero della Giustizia, addirittura oggi forse in filigrana d’oro (o in pelle umana, parafrasando battute fantozziane).


5. Inadempienti a chi? – Vien proprio da pensare “Vi abbiamo dato il protocollo e vi siete presi tutto il braccio”. Ecco perché non avrebbe dovuto mai essere concesso alcun protocollo. Perché dal protocollo si è creato artificiosamente un obbligo. E dall’obbligo artificioso si è passati alla punizione reale.
Vien poi da fare un’altra riflessione: da quale pulpito vien la predica punitiva. Infatti come sempre ben sottolineato “Mi chiedo quindi se tale decisione, punitiva, non possa e non debba essere logicamente collegata a quelle altre decisioni con le quali, non pochi magistrati di diversi Uffici Giudiziari, hanno disposto l’irricevibilità o l’inammissibilità del deposito telematico di atti introduttivi in assenza di quel valore “legale” contenuto nei decreti emessi da DGSIA ex art. 35 del DM 44/11 e che hanno potenzialmente arrecato, ai colleghi che tali provvedimenti hanno subito, gravi danni sotto il profilo della responsabilità professionale e deontologica pur essendo tali provvedimenti riferiti ad un potere che DGSIA per legge non ha e non ha mai avuto, ossia quello di indicare, nei detti decreti, sia l’elenco degli atti depositabili telematicamente sia i procedimenti in cui tali atti possono essere depositati. E mi chiedo ancora se queste decisioni non possano in qualche modo collegarsi al mancato inserimento, nel Decreto Legge n. 90/2014, di una norma con la quale il legislatore avrebbe dovuto disporre l’obbligo per il difensore di effettuare si il deposito telematico ma di replicare tale deposito mediante la consegna cartacea in cancelleria di “copie di cortesia” obbligatorie!” (Reale M., PCT: niente copia di cortesia cartacea? Sì a responsabilità aggravata, Altalex, 20 febbraio 2015). E, dulcis in fundo, “mi chiedo da ultimo come mai, ad oggi, nessun provvedimento sia stato assunto per la mancata osservanza, nella gran parte degli Uffici Giudiziari, delle disposizioni previste dall’articolo 11 delle specifiche tecniche dell’art. 34 DM 44/11 pubblicate il 16 aprile 2014 nel quale si legge chiaramente che “Il fascicolo informatico raccoglie i documenti (atti, allegati, ricevute di posta elettronica certificata) da chiunque formati, nonché le copie informatiche dei documenti; raccoglie altresì le copie informatiche dei medesimi atti quando siano stati depositati su supporto cartaceo” con ciò, quindi, essendo palese l’obbligo per le cancellerie di trasformare in digitale quanto depositato in cartaceo (atti introduttivi, comparse di costituzione e risposta e relativi documenti allegati ai detti atti) cosa questa che, ove osservata, consentirebbe oggi di avere un fascicolo interamente informatico e non, al contrario, in parte informatico e in parte cartaceo.


Forse sono tutte coincidenze ma è certo che gli indizi ci sono e credo di poter affermare che se l’Avvocatura, pur con grandi sforzi, ha dimostrato di sapersi adeguare progressivamente all’utilizzo della tecnologia offrendo anche il proprio contributo, nei tavoli istituzionali, per migliorare l’impianto normativo del processo telematico altrettanto non può dirsi per alcuni componenti della magistratura che, nel processo, sembrano non poter fare a meno della carta e che, da questo momento in poi, potrebbero essere definite “Toghe analogiche”.” (Reale M., PCT: niente copia di cortesia cartacea? Sì a responsabilità aggravata, Altalex, 20 febbraio 2015).
Ecco, ce lo chiediamo anche noi.

§

Tribunale di Milano

Sezione II Civile

Decreto 20 novembre 2014 – 15 gennaio 2015, n. 534 (Presidente Bruno – Relatore D’Aquino)

Premesso in fatto

L'opponente ha premesso di avere depositato domanda di ammissione al passivo in chirografaria per il proprio credito di Euro 3.528.304,16, deducendo che la domanda è respinta con decreto del G.D. in data 13.12.2013 sul presupposto che le fatture prodotte a supporto della domanda di insinuazione al passivo non costituissero prova dell'asserito credito. Nello specifico, l'opponente deduce di avere emesso le fatture di cui sopra (doc …), recanti la descrizione “canoni di affitto futuri comp. A,B,C,D del contratto 5.04.2007”, in relazione alla scrittura privata stipulata in data 5.04.2007 con la società opposta, seguita a pedissequo contratto di locazione di fabbricato, con cui le parti avevano regolato i propri rapporti nei seguenti termini: a fronte della costruzione di un opificio industriale da parte della (…), (…) si sarebbe impegnata a sottoscrivere un immediato contratto di affitto di anni 6+6, pagandone anticipatamente i canoni di locazione in vista della futura locazione della cosa, in tal modo contribuendo finanziariamente al progetto.


E' proprio sulla base di detta scrittura privata che sarebbero state emesse le fatture prodotte in atti e poste alla base dell’insinuazione al passivo respinta. Deduce, inoltre, che il credito in oggetto, essendo supportato dalla documentazione fiscale in atti e risultante la contabilità della fallita, sarebbe dunque stato dalla stessa accettato e riconosciuto aggiungendo. che il Curatore, nella sua qualità di terzo, non avrebbe dedotto alcun fatto estintivo del diritto fatto valere. Deduce, inoltre, l'opponente di avere effettivamente svolto le prestazioni di cui chi e l'ammissione, precisando che l'operazione negoziale posta in essere (pagamento di canoni anticipati in vista della futura locazione della cosa, non appena terminata la costruzione) rispondeva a delle specifiche esigenze delle parti ed in particolare della (…), che aveva richiesto dei particolari accorgimenti di carattere tecnico nella costruzione dell’intero complesso. Conclude insistendo, pertanto, nell'originaria domanda respinta dal G.D.. Il Curatore del Fallimento si è costituito, allegando come in sede di insinuazione al passivo davanti al G.D. fossero state prodotte unicamente le fatture poste a fondamento del credito, non idonee tuttavia a comprovare né l'esistenza né il titolo della pretesa, trattandosi documenti di formazione unilaterale. Deduce, in ogni caso, il Fallimento la tardività l'inopponibilità, ai sensi e per gli effetti di cui all'art 2704 c.c., della documentazione prodotta in sede di opposizione in quanto priva di data con particolare riguardo alla scrittura privata del 05.04.2007 stipulata dall'opponente con la società (…) il che comporterebbe che correttamente il credito é stato escluso in quanto non vi è la prova che il rapporto contrattuale sia sorto precedentemente alla dichiarazione di fallimento della società opposta. Infine, quanto all'operazione negoziale posta in essere, il fallimento opposto ha rilevato in ogni caso lo squilibrio del rapporto sinallagmatico, a fronte della disomogeneità delle prestazioni tra le parti, in particolare a carico della (…) (spiegare che non corrispettività tra mancato godimento e pagamento del canone).


Considerato in diritto

L'opposizione è infondata e, pertanto, deve essere integralmente rigettata. 1.1- Preliminarmente, occorre dare atto del fatto che l'opponente sviluppa per la prima volta nella memoria conclusiva alcuni argomenti, a suo dire decisivi in relazione alla preliminare difesa del fallimento opposto, che contesta la carenza di data certa. Nonostante l'inammissibilità di tali deduzioni (in quanto tardivamente articolate), le stesse vengono qui trattate perché su di esse parte opposta ha accettato il contraddittorio. La difesa dell'opponente non contesta di avere prodotto la documentazione a supporto del proprio credito per la prima volta in sede di opposizione (e non anche in sede di formazione dello stato passivo davanti al G.D.). Tuttavia l'opponente considera “paradossale” tale difesa del fallimento (mancanza di data certa della documentazione prodotta a supporto dell'esistenza del credito), adducendo che il Fallimento stesso, pur insistendo nella propria eccezione, ha preso in esame i documenti di cui si discute, svolgendo le proprie difese. 1.2 - Ciò premesso, si rileva come la documentazione prodotta dall'opponente sostegno della sussistenza del proprio credito nei confronti della società fallita (fa scrittura privata: docc. 1, 2 fasc. opponente) è priva con tutta evidenza di data certa. Sul punto, l'opponente deduce che la data certa sul contratto di locazione si rinverrebbe dalla menzione di essa fatta sulle fatture prodotte; in particolare, deduce che “essendo queste fatture registrate nei registri IVA vendite di (…) (doc. 4 della ricorrente privo di contestazione ex adverso), la certezza della data proviene, appunto dalla registrazione sul registro IVA di tali fatture”. Ma detta circostanza non può, ad avviso del Collegio, far ritenere sussistente la data certa del documento contrattuale, in quanto è noto che l'obbligo di annotare le fatture emesse con riferimento alla data di emissione assuma rilevanza ai fini della liquidazione periodica dell'IVA, ma non può comportare la certezza della data di un documento negoziale precedente l'emissione delle fatture.


Né può sostenersi che il credito dell'opponente sussista per facta concludentia per il fatto che lo stesso sia stato menzionato nelle fatture e, quindi, accettato dalla società fallita. L'argomento costituisce una evidente petizione di principio, posto che non si può portare a prova dell'apponibilità di un credito portato da titoli sprovvisti di data certa in forza di quegli stessi titoli che ne sono privi; né può ritenersi producente per il creditore quanto da lui dichiarato in sede di descrizione delle fatture da lui redatte. Infatti, nei confronti del creditore che propone istanza di ammissione al passivo fallimento per un suo preteso credito, il Curatore, quale portatore degli interessi della massa dei creditori, è terzo e non parte. Da questa circostanza discende l'applicabilità dei limiti probatori indicati nell'art. 2704 c.c. in tema di certezza e computabilità della data riguardo terzi; senza prova della formazione del documento in epoca precedente della sentenza dichiarativa di fallimento, il creditore non può opporre alla massa dei creditori gli effetti negoziali propri della convenzione in essa contenuta (Cass. n. 2l25li2010). L'infondatezza delle argomentazioni in punto apponibilità della documentazione prodotta in sede di opposizione comporta l'assorbimento dell'esame delle ulteriori questioni. L'opposizione va, pertanto, rigettata.
2 - Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va osservato come parte opponente abbia depositato la memoria conclusiva autorizzata solo in forma telematica, senza la predisposizione delle copie “cortesia” di cui al Protocollo d'Intesa tra il Tribunale di Milano e l'Ordine degli Avvocati di Milano del 26.06. 014, rendendo più gravoso per il Collegio esaminarne le difese. Tale circostanza comporta l’applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c. come da dispositivo.


P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sull'opposizione allo stato passivo promossa da (…) nei confronti di (…) avverso il decreto del G.D., in data 13.12.2013, così provvede:
1 - rigetta l'opposizione;
2 - condanna (…) al pagamento in favore di (…), al pagamento delle spese processuali, che liquida in complessivi euro 12.000,00 per competenze. oltre IVA e C.o.a. come per legge ed oltre al 15% rimborso spese generali; condanna (…); al pagamento in favore di FALLIMENTO (…) ex art. 96, comma 3, c.pc. dell'importo ulteriore di euro 5.000,00.

Avv. Marcello Adriano Mazzola – Delegato di Cassa Forense

 

 

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