I POTENZIALI RISVOLTI DEONTOLOGICI DEL LITIGATION FUNDING

di Giulio Micioni - Marcello Montalto

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Di recente è stato dato risalto alla crescita in Italia dell’istituto – ben noto nei Paesi di diritto anglosassone – denominato litigation funding o, più precisamente, third party funding, che consiste nel finanziamento, da parte di un soggetto estraneo alla lite (di solito, gruppi finanziari, banche o assicurazioni), dei costi di una controversia giudiziale o arbitrale (inclusa la condanna al pagamento delle spese di soccombenza a favore della controparte), a fronte di una percentuale, precedentemente concordata, di quanto concretamente introitato dalla parte finanziata, solo in caso di esito vittorioso del giudizio.

Si tratta di un contratto atipico e aleatorio, in forza del quale un soggetto, privo di una propria legittimazione ad agire per promuovere un giudizio, fornisce le risorse economiche ad altro soggetto invece titolare di un diritto ad agire, assumendosi, in tutto o in parte, il rischio dell’esito della lite, dietro compenso parametrato al valore della controversia o al risultato conseguito. Il finanziatore (litigation funder), quindi, si accolla direttamente i costi legali del giudizio (compenso per l’avvocato patrocinante la vertenza, consulenze, ecc.).

Struttura di un accordo di finanziamento dei contenziosi

In questo rapporto trilaterale – denominato, appunto, nel diritto anglosassone, third party funding – le parti coinvolte risultano essere il finanziatore, il cliente finanziato e, con un evidente ruolo centrale, l’avvocato, chiamato a rendere preliminarmente una valutazione sul possibile esito positivo della controversia, che poi ne assume eventualmente anche il patrocinio.

Nello schema contrattuale descritto, in cui l’avvocato percepisce il proprio compenso direttamente dal finanziatore (cliente), in base ad un accordo con quest’ultimo, e non dal soggetto finanziato (parte assistita), possibili criticità, sotto il profilo deontologico, potrebbero ravvisarsi nel potenziale accaparramento illecito di clientela, che avverrebbe per il tramite dell’intermediazione di un soggetto terzo (il finanziatore) rispetto all’assistito, in violazione dell’art. 37, I° comma, CDF.

Criticità deontologiche del finanziamento dei contenziosi

Come detto, la struttura del litigation funding presuppone un soggetto finanziatore della lite, che indica (ovvero, più probabilmente, impone) al cliente finanziato l’avvocato che patrocinerà la controversia, essendo direttamente e particolarmente interessato all’esito della stessa. In tal modo l’avvocato riceve l’incarico non direttamente dal patrocinando (parte assistita e soggetto finanziato) con le ordinarie modalità del “libero mercato”, ma attraverso la mediazione del finanziatore, che provvederà anche a corrispondere direttamente il compenso al difensore.

Si tratta, all’evidenza, di uno schema pericolosamente vicino a quello sanzionato dall’art. 37, I° comma, CDF, che vieta all’avvocato di acquisire rapporti di clientela tramite agenzie o procacciatori. Lo schema contrattuale trilatero del litigation funding potrebbe inoltre indurre l’avvocato a tenere comportamenti lesivi dell’autonomia e indipendenza, a cui il professionista deve ispirare la propria condotta nella gestione della controversia, considerato che, di fatto, dovrà render conto del proprio operato, anche – se non soprattutto – al finanziatore e non alla sola parte assistita, in potenziale contrasto, con quanto disposto all’art. 23, I° comma, CDF, che impone all’avvocato, in caso di conferimento dell’incarico da parte di un terzo, nell’interesse proprio o della parte assistita, oltre che l’obbligo di accettarlo soltanto con il consenso di quest’ultima, anche quello di svolgerlo nell’esclusivo interesse della parte assistita, che, nel caso di specie, è il soggetto finanziato.

Mancanza di una normativa sul finanziamento dei contenziosi

Altri ipotesi di possibile conflitto con le norme deontologiche si potrebbero verificare, ad esempio: nel caso in cui l’accordo tra finanziatore e parte assistita finanziata preveda, a carico di quest’ultima, l’obbligo di informativa sull’andamento della controversia, ad opera dell’avvocato, anche in favore del finanziatore e nell’ipotesi di inadempimento a tale obbligo; nel caso in cui l’accordo tra finanziatore e parte finanziata stabilisca l’obbligo di consentire la visione degli atti della lite al finanziatore o, ancora, nell’ipotesi in cui il finanziatore pretenda la partecipazione di un proprio rappresentante in occasione del compimento di alcuni atti processuali (ad esempio udienze o attività peritali).

Si tratta di possibili previsioni contrattuali in potenziale contrasto con l’obbligo deontologico dell’indipendenza e autonomia, di riservatezza e lealtà dell’avvocato nei confronti innanzitutto della parte assistita. Le questioni sinteticamente esposte, allo stato, risultano irrisolte anche per la mancanza di una normativa sul litigation funding sia a livello nazionale che europeo. La diffusione e l’applicazione pratica di tale istituto consentirà di verificare sul campo quali siano le condotte concretamente in contrasto con le prescrizioni deontologiche vigenti e quali rimedi si debbano adottare per non violare tali regole.

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