Il dramma di Charlie Gard: il delicato confine tra responsabilità genitoriale e scelte sanitarie.

di Ida Grimaldi

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Il piccolo Charlie Gard nasce il 4 agosto del 2016. Dopo un mese di vita inizia ad accusare i sintomi di una rara malattia degenerativa. Nell’ottobre del 2016 viene ricoverato al Great Ormond Street Hospital (Gosh), per bambini, di Londra.

Nel succedersi di diagnosi e confronti tra medici e genitori, questi ultimi vengono a conoscenza di una cura sperimentale adottata negli Stati Uniti nell’ambito delle mitocondriopatie.

Vorrebbero trasferire lì il bambino. Nel febbraio 2017 i medici, che non trovano un punto di accordo con i genitori, chiedono ed ottengono dall’Alta Corte di autorizzare la sospensione delle cure “salvavita”, tramutatesi, a loro giudizio, in accanimento terapeutico.

I genitori ricorrono in Appello prima e alla Corte Suprema, successivamente, senza successo. L’iter giudiziario culmina con la sentenza della CEDU del 27 giugno 2017, la quale conferma la decisione dei giudici britannici.

La questione desta clamore, sia mediatico sia politico, a livello internazionale, al punto da diventare spettacolarizzazione. Il 10 luglio 2017 i genitori di Charlie tornano all’Alta Corte, chiedendo ed ottenendo altre analisi sul caso. Tuttavia, dai nuovi esami effettuati il 17 luglio dal neurologo Michio Hirano di New York, emergono esiti negativi che non danno speranze.

Così, il 24 luglio 2017, alla vigilia della decisione della Corte, i coniugi Gard annunciano di rinunciare alla battaglia legale: i medici potranno staccare la spina a Charlie, il che avverrà il 28 luglio 2017. I genitori si riappropriano, così, di una responsabilità che, in mancanza di alleanza terapeutica con i dottori del Gosh, rischiava di essere demandata ai giudici di concerto con i medici.

La storia di Charlie Gard è stata molto discussa anche in Italia, trattandosi di situazione molto delicata, con implicazioni etiche, mediche e giuridiche. Il punto è: chi decide per il miglior interesse del malato? Qual è il confine tra cura e accanimento? Dove e quando il diritto deve cedere al dovere? Un punto di partenza potrebbe essere l’affermazione del diritto alla salute, tutelato dall’art.32 della Costituzione: esso è diritto inviolabile che, ai sensi dell'articolo 2 della Costituzione, é espressione della personalità umana dell'individuo sia come singolo sia come membro delle formazioni sociali in cui egli cresce e vive.

"Libertà di cura" e "libertà di terapia" sono due aspetti di una medesima realtà, concorrendo entrambi all'effettività del diritto alla salute: la cura è del paziente, la terapia è del medico. Quest’ultimo, tuttavia, di fronte ad un paziente la cui malattia è talmente grave da rendere inutile ogni terapia che possa far sperare in un recupero, ha sostanzialmente due alternative: l'eutanasia passiva (non fare più nulla e lasciare che la malattia maligna termini il suo percorso) o porre in essere un vero e proprio, ma vano, accanimento terapeutico.

E’ a questo punto che diventa ineludibile il drammatico confronto, o scontro, tra scienza-dovere- e lacerante sentimento–diritto-: può il parere scientifico venire prima della volontà del malato o dei suoi genitori, se questi è un minore?

Si può impedire a padre e madre di decidere liberamente la soluzione migliore nell’interesse del figlio?

Il vero problema nasce quando si interrompe, come nel caso di Charlie Gard, la comunione di intenti terapeutici tra genitori e medici.

In tal caso il potere di decidere, di fronte ad un bivio davvero drammatico (rinuncia alle cure considerate dai medici accanimento terapeutico e, dall’altra parte, speranza eroica di miglioramento tramite il ricorso a cure sperimentali) spetta all’autorità giudiziaria, con tutti i rischi di strumentalizzazioni sia ideologiche sia politiche.

Sebbene, infatti, ai genitori spetti la responsabilità genitoriale, così come previsto nel nostro Ordinamento dall’art. 316 del codice civile, l’autorità giudiziaria può intervenire qualora una decisione dei genitori possa creare pregiudizio al figlio.

Allora il Giudice si sostituisce al genitore nella valutazione del miglior interesse del bambino. Nel caso di Charlie la decisione dei giudici inglesi parte dall’applicazione del diritto britannico sull’accanimento terapeutico, che dispone l’obbligo dei medici di interrompere le cure quando l’eccezionalità dei mezzi impiegati non risulti funzionale allo scopo medico. I giudici inglesi, quindi, nel conflitto tra le due volontà, quella della scienza medica e quella dei genitori, hanno optato per la scienza medica, tanto più che “i medici dell’ospedale che hanno in cura il bambino non escludono che egli possa provare dolore”.

Il “best interest” del paziente, emerso dalla documentazione, é coinciso, dunque, con la scelta dei medici di tutelare non solo il diritto alla salute del bambino, ma, soprattutto, il suo diritto a non patire sofferenze inutili e, quindi, a morire dignitosamente.

Dignità è la parola chiave di tutta la vicenda e di ogni vicenda analoga: la scelta finale e sofferta dei genitori di Charlie ha restituito al piccolo la sua dignità. Un ultimo saluto a Charlie Gard con una perenne verità di Primo Levi , in “Se questo è un uomo”, : “...Negare la dignità, significa trasformare la persona in mero organismo biologicamente vivente, privo di rispetto e considerazione...”. Dignità a Charlie e a tutti i bambini come lui, ma anche rispetto, considerazione…e un po’ di silenzio.

Avv. Ida Grimaldi - Delegato Cassa Forense


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