COMPENSO AVVOCATO, RIFLESSI DELL’ESPRESSIONE “O QUELLA MAGGIORE O MINORE CHE SI RITERRÀ DI GIUSTIZIA”

di Leonardo Carbone

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Per la determinazione dello scaglione degli onorari di avvocato ai fini della liquidazione delle spese il parametro di riferimento è costituito dal valore della causa, determinato a norma del codice di procedura civile, e quindi, dalla somma pretesa con la domanda di pagamento.

Nelle cause di risarcimento danni spesso si inserisce nelle conclusioni dell’atto introduttivo (con cui si chiede la condanna al pagamento di un certo importo),  la formula “o somma maggiore o minore ritenuta dovuta” o altra espressione equipollente.

Quali effetti ha l’inserimento di  tale formula sul valore della controversia ai fini della determinazione del compenso spettante all’avvocato, atteso che sono previste tabelle parametriche specifiche per le controversie di valore indeterminabile?

Calcolo compenso avvocato due filoni giurisprudenziali

Al riguardo, sugli effetti della espressione “o quella maggiore o minore somma che si riterrà di giustizia” sul valore della controversia (in particolare se tale formula “trasformi” o meno il valore della causa in valore indeterminabile),  vi sono due filoni giurisprudenziali.

Il primo filone giurisprudenziale ritiene che  la formula di gergo forense “o quell’altra maggiore o minore che risulterà in corso di causa” ha natura di clausola di stile ed è inidonea a trasformare il valore della causa, il quale resta delimitato dalla somma specificata, non potendo la causa essere considerata di valore indeterminabile (Cass.26 luglio 2011 n. 16318;  Cass. 5 febbraio 1976 n. 401;Cass. 15 giugno 1973 n. 1744).  

Il secondo  filone giurisprudenziale, confermato anche di recente dalla Suprema Corte (Cass. 6 aprile 2022 n.11213; Cass. 26 aprile 2021 n. 10984; Cass. 20 luglio 2018 n. 19455),  ritiene,invece, che la causa deve essere considerata di valore indeterminabile qualora, nell’atto introduttivo, pur essendo stata richiesta la condanna di controparte al pagamento di una somma specifica, vi si aggiunga l’espressione “o di quella maggiore o minore che si riterrà di giustizia” o espressioni equivalenti; e ciò in quanto, ai sensi dell’art.1367 cod.civ., applicabile anche in materia di interpretazione degli atti processuali di parte, non può ritenersi, “a priori” che tale espressione sia solo una clausola di stile senza effetti, dovendosi, al contrario, presumere che in tal modo l’attore abbia voluto indicare solo un valore orientativo della  pretesa, rimettendone al successivo accertamento giudiziale la quantificazione.    La richiesta di liquidare una somma determinata “o quella maggiore o minore che si riterrà di giustizia”  come le altre formule equivalenti, quindi non può ex abrupto definirsi una formula di stile senza effetti  e non piuttosto una espressa riserva per il conseguimento dell’eventuale maggiore somma dovuta.

La Suprema Corte (Cass. 20 luglio 2018 n. 19455) precisa, però, che la formula «somma maggiore o minore ritenuta dovuta» o altra equivalente, che accompagna le conclusioni con cui una parte chiede la condanna al pagamento di un certo importo, non costituisce una clausola meramente di stile quando vi sia una ragionevole incertezza sull'ammontare del danno effettivamente da liquidarsi, mentre tale principio non si applica se, all'esito dell'istruttoria, sia risultata una somma maggiore di quella originariamente richiesta e la parte si sia limitata a richiamare le conclusioni rassegnate con l'atto introduttivo e la formula ivi riprodotta, perché l'omessa indicazione del maggiore importo accertato evidenzia la natura meramente di stile dell'espressione utilizzata

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