Quiet quitting: cambiare il lavoro restando

di Gianluca Mariani

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Il mondo del lavoro sta cambiando silenziosamente. Nessuno alza la voce, nessuno abbandona la scrivania sbattendo la porta. Eppure qualcosa si incrina. È il fenomeno del quiet quitting, che tradotto letteralmente significa "dimettersi in silenzio", ma che, nella realtà, non ha nulla a che vedere con le dimissioni formali. Si continua a lavorare, ma in modo diverso. Si resta, ma si smette di sacrificarsi oltre il necessario.

Quiet quitting: definizione e significato

Il quiet quitting rappresenta un cambio di paradigma nel rapporto tra lavoratori e aziende. Non si tratta di abbandonare il lavoro, ma di ritirarsi dal surplus di coinvolgimento che per anni è stato dato per scontato: straordinari non retribuiti, reperibilità costante, identità professionale totalizzante.

Chi sceglie questa strada non è svogliato, ma consapevole: decide di fare il proprio dovere, senza però sacrificare salute mentale, vita privata o benessere personale. È una forma di autodifesa, una risposta individuale a una cultura aziendale percepita come squilibrata.

Un nuovo contratto psicologico tra lavoratore e impresa

Al centro del quiet quitting c’è la crisi del cosiddetto contratto psicologico, ovvero quell’insieme non scritto di aspettative reciproche tra dipendente e datore di lavoro. Per anni si è creduto che l’impegno extra sarebbe stato premiato con avanzamenti di carriera, stabilità o riconoscimento. Oggi, molti lavoratori non ci credono più.

Il risultato è una forma di disimpegno selettivo, non per pigrizia, ma per delusione. Quando l’azienda non restituisce ciò che promette — in termini di valore, crescita, rispetto — il lavoratore smette di dare oltre il minimo previsto.

L’impatto sulle aziende: crisi o occasione?

Il quiet quitting pone le imprese davanti a una scelta: ignorare il segnale e perdere motivazione interna, oppure interpretarlo come occasione di evoluzione culturale.

Le aziende che si affidano ancora a modelli gerarchici rigidi, basati sul controllo e sulla competitività esasperata, rischiano di allontanare i talenti. Al contrario, chi saprà investire in fiducia, ascolto e benessere organizzativo potrà costruire relazioni professionali più solide, produttive e durature.

Una recente analisi pubblicata da McKinsey, The hidden costs of quiet quitting, quantified, ha cercato di stimare proprio l’impatto economico di questo fenomeno, sottolineando quanto la disconnessione emotiva dei dipendenti possa incidere negativamente sulla performance aziendale complessiva.

Tra le risposte virtuose già in atto si segnalano:

  • politiche di smart working e flessibilità oraria,

  • programmi di employee wellbeing,

  • nuovi modelli di leadership partecipativa,

  • formazione continua orientata al benessere e allo sviluppo personale.

Quiet quitting: trend passeggero o crisi di senso?

Liquidare il quiet quitting come un semplice trend social — amplificato da hashtag virali o meme generazionali — sarebbe riduttivo. Questo fenomeno intercetta una crisi di senso profonda che attraversa il lavoro nel post-pandemia. Il concetto di successo si sta ridefinendo: non più solo carriera e status, ma qualità della vita, equilibrio e libertà.

Soprattutto tra le nuove generazioni, il lavoro non è più il centro della vita, ma una sua componente. Cresce il rifiuto della cultura dell’“always on”, dell’eroe aziendale che sacrifica tutto. In cambio, emerge una richiesta forte e chiara: essere ascoltati, valorizzati e rispettati.

Conclusioni: ascoltare il segnale del quiet quitting

Il quiet quitting non è un atto di rifiuto, ma un invito al cambiamento. Una sveglia silenziosa per le imprese, chiamate a ripensare il proprio rapporto con le persone: non più solo risorse da impiegare, ma soggetti da coinvolgere.

Se ascoltato con attenzione, questo fenomeno può essere il punto di partenza per un nuovo modo di intendere il lavoro: più umano, più sostenibile, più giusto. E forse, in un futuro non troppo lontano, non ci sarà più bisogno di “dimettersi in silenzio”.

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