Verso le nuove parità
23/04/2014
Stampa la paginaPartiamo dalla fattispecie appena descritta. E’ indubbio come sia anomalo che in 61 anni il foro (importante) abbia espresso una sola delegata donna per ricoprire una veste istituzionale così apicale. Ma occorre comprendere le ragioni dell’accaduto (pur accettando che non siano condivise): in passato l’avvocatura è stata intrapresa soprattutto da uomini, mentre oggi le donne rappresentano circa il 50%; in passato la politica è stata vissuta più dagli uomini, oggi viene vissuta anche dalle donne. Tanto la scelta di fare l’avvocato quanto di svolgere politica forense sono appunto libere “scelte” dettate da una serie di circostanze (sociali, culturali, utilitaristiche, occasionali, passionali) e non certo il prodotto di discriminazioni. Perlomeno certamente non nell’avvocatura.
Partiamo dalla politica. Il sistema elettorale “forense” (per Cassa Forense ma non solo), - ancorché ben migliorabile verso sistemi di maggiore partecipazione e democrazia -, non discrimina (e ci mancherebbe altro) in base al sesso (né in base ad altre caratteristiche). Chi vuole, si chiama democrazia, si candida (in particolare per le elezioni degli Ordini e di Cassa Forense, in tal ultimo caso attraverso il voto di lista). Dunque chi ha impedito e chi impedisce oggi alle donne di candidarsi e di avere il consenso? Nessuno. Pertanto indurre a credere che ci siano poche donne nella politica forense a causa di fenomeni discriminatori è frutto di un errore.
Il meccanismo delle c.d. quote rosa (che pure ho sostenuto nel nuovo Regolamento elettorale adottato da Cassa Forense) deve essere inteso come una sorta di start up per consentire di riequilibrare (con una certa proporzionalità rispetto al numero degli uomini e delle donne togate) la giusta proporzione negli organi di rappresentanza della politica forense (istituzionale in primis).
Non possono essere intese invece come il diritto ad avere una “riserva” di genere. Non si possono imporre le donne in politica, né altrettanto può dirsi per gli uomini. Non può esistere il diritto di essere rappresentativi. Sarebbe aberrante. L’elettorato decida. Decida auspicabilmente in base a meriti, capacità, propositività. Non in base all’identità sessuale.
Veniamo poi alla presunta discriminazione nell’ambito professionale, con riferimento proprio all’evocazione costante della ricerca Censis del 2010 su donne e avvocatura, dalla quale è emersa una marcata disparità reddituale tra colleghi uomini e colleghe donne. Disparità ben nota a Cassa Forense. Ma nessuno spiega i motivi di ciò. Anzi lasciando intendere che le donne guadagnino meno proprio in quanto donne. Così posta diviene una indebita speculazione.
La Commissione P.O. di Cassa Forense nel quadriennio passato ha attentamente analizzato tale report ed ha osservato che tale dicotomia è dovuta al ruolo multitasking della donna nella società civile. Dunque – questa la ragionevole conclusione - se le donne si dedicano assai meno alla professione, se ne ricava che guadagnino di meno. Può farsi carico l’avvocatura di intervenire su tale profilo? Se la risposta è positiva, al pari l’avvocatura dovrebbe garantire un super welfare anche in favore degli uomini che decidano di dedicarsi alla paternità e al focolare domestico. Diversamente saremmo dinanzi ad una discriminazione.
Non si tutelano le colleghe chiamandole “avvocate”, invece del più gradevole avvocatesse (pur se con l’avallo stonato dell’Accademia della Crusca), o citando il rapporto Censis senza spiegarne i motivi. Si tutelano se soggetti deboli, insieme a tutti gli altri soggetti deboli dell’avvocatura.
E’ invece ragionevole ritenere che in seno all’avvocatura le discriminazioni siano ben altre: tra colleghi “anziani” che hanno vissuto una stagione dorata dell’avvocatura ed hanno pensioni coperte anche solo col 43% dai propri contributi (mentre ora il livello di copertura è mediamente del 97%) e colleghi “giovani” chiamati ad avviare una professione in condizione di enorme difficoltà (al cospetto di una schizofrenia legislativa; nell’attuale complesso rapporto con i clienti; in una condizione economica disastrosa; gravati da innumerevoli adempimenti anche onerosi etc.), tra colleghi che operano in situazioni geograficamente disagiate e colleghi che operano in zone ampiamente agiate; etc.
Dis-parità di opportunità alle quali Cassa Forense ha in parte già risposto concretamente con l’adozione di un Regolamento ex art. 21 l.p.f. indulgente ed alle quali si appresta a rispondere con un welfare moderno.
Avv. Marcello Adriano Mazzola – Delegato di Cassa Forense