Sentenza Corte Costituzionale n. 206/2017

di Carlo Maria Binni

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per contrasto con gli artt.24 c.2 e 3 Cost. La Corte già con la sentenza n. 273 del 2014 aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il fatto diverso, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, oggetto della nuova contestazione e proprio a quella sentenza fa riferimento enunciando che molti dei passaggi argomentativi che sorreggevano quella decisione possono estendersi a quella odierna. Nella sentenza n.206/2017 la Corte ripercorre attraverso la propria giurisprudenza l’istituto delle nuove contestazioni previste dagli artt. 516 e 517 cpp che definisce coerente, in linea di principio, con l’impostazione accusatoria del codice di rito e ricorda come tale istituto si connota (sentenze n. 333/2009 e n. 184/2014) «non più soltanto come uno strumento – come detto, speciale e derogatorio – di risposta ad una evenienza pur “fisiologica” al processo accusatorio (quale l’emersione di nuovi elementi nel corso dell’istruzione dibattimentale), ma anche come possibile correttivo rispetto ad una evenienza “patologica”: potendo essere utilizzato pure per porre rimedio, tramite una rivisitazione degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari, ad eventuali incompletezze od errori commessi dall’organo dell’accusa nella formulazione dell’imputazione». Ricorda poi la Corte le proprie pronunce sul tema:


  • le sentenze emesse negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice con cui aveva escluso che la preclusione dei riti speciali violasse gli artt. 3 e 24 Cost. richiamando il principio di indissolubilità del binomio premialità-deflazione. In particolare, per quanto concerne il patteggiamento, aveva ritenuto che l’interesse dell’imputato a beneficiare dei relativi vantaggi in tanto poteva rilevare, in quanto egli avesse rinunciato al dibattimento «la preclusione all’ammissione di tali giudizi in caso di contestazione dibattimentale suppletiva non è affatto irragionevole…. il relativo rischio rientra naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiederli o meno» (sentenze nn. 277 e 593 del 1990, 316/1992, 129/1993 e ordinanza n. 213/1992).
    Con successivi passaggi argomentativi la Corte dimostra che non possono essere decisivi questi argomenti: in merito alla correlazione, nei procedimenti speciali, tra premialità e deflazione processuale osserva «che l’accesso al rito alternativo dopo l’inizio del dibattimento rimane comunque idoneo a produrre un’economia processuale», in merito all’assunzione da parte dell’imputato del rischio di non richiedere il patteggiamento osserva che «non si può pretendere che l’imputato valuti la convenienza di un rito speciale tenendo conto anche dell’eventualità che, a seguito dei futuri sviluppi dell’istruzione dibattimentale, l’accusa a lui mossa subisca una trasformazione, la cui portata resta ancora del tutto imprecisata al momento della scadenza del termine utile per la formulazione della richiesta» (sentenza n. 273/2014). Inoltre, anche in rapporto alla contestazione dibattimentale “fisiologica” del fatto diverso è ravvisabile la ingiustificata disparità di trattamento – rilevata sia dalla sentenza n. 237 del 2012 che dalla sentenza n. 273 del 2014, con riguardo al giudizio abbreviato – rispetto al caso del recupero, da parte dell’imputato, della facoltà di accesso al patteggiamento per circostanze puramente “occasionali” che determinino la regressione del procedimento. Ciò si verifica, in particolare, allorché, in seguito alle nuove contestazioni, il reato rientra tra quelli per cui si procede con udienza preliminare, e questa non sia stata tenuta, per cui ne consegue la trasmissione degli atti al pubblico ministero;


  • la sentenza n. 265 del 1994, con  cui la Corte, nel caso di contestazioni dibattimentali “tardive”, è pervenuta, proprio rispetto al patteggiamento, a una diversa conclusione, perché ha ritenuto che in questa ipotesi non possa parlarsi di una libera assunzione da parte dell’imputato del rischio di una nuova contestazione nel dibattimento, dato che le sue determinazioni in ordine ai riti speciali erano state sviate da una condotta processuale anomala del pubblico ministero, dichiarando costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentivano all’imputato di richiedere il patteggiamento, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerneva un fatto che già risultava dagli atti di indagine, al momento dell’esercizio dell’azione penale; la successiva sentenza n. 333 del 2009 che giunge ad analoga decisione per il giudizio abbreviato e le sentenze successive che dichiararono l’illegittimità dell’art. 517 cod. proc. pen., prima, nella parte in cui non consentiva il patteggiamento (sentenza n. 184 del 2014) e, poi, nella parte in cui non consentiva il giudizio abbreviato (sentenza n. 139 del 2015), nel caso in cui il pubblico ministero aveva proceduto alla contestazione suppletiva “patologica” di una circostanza aggravante;
  • le due più recenti sentenze in tema di nuove contestazioni “fisiologiche”(volte, cioè, ad adeguare l’imputazione alle risultanze dell’istruzione dibattimentale):la sentenza n. 237/2012 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di eguaglianza e del diritto di difesa (artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.), l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente all’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il reato concorrente, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, oggetto della nuova contestazione;la sentenza n. 273/2014 che sulla base di argomenti analoghi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il fatto diverso, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, oggetto della nuova contestazione.E proprio con riferimento a quest’ultima sentenza la Corte rileva un ulteriore profilo di disparità di trattamento, posto che per effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., contenuta nella stessa, dopo una modificazione “fisiologica” dell’imputazione, è riconosciuta all’imputato la facoltà di chiedere il giudizio abbreviato ma non anche quella di chiedere il patteggiamento.

In seguito alla contestazione, ancorché “fisiologica”, del fatto diverso «l’imputato che subisce la nuova contestazione “viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio”. Infatti, “condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti”» (sentenze n. 237/2012 e n. 273/2014), e ciò vale non solo per il giudizio abbreviato, ma anche per il “patteggiamento”. In questo procedimento infatti la valutazione dell’imputato è indissolubilmente legata, «ancor più che nel giudizio abbreviato, alla natura dell’addebito, trattandosi non solo di avviare una procedura che permette di definire il merito del processo al di fuori e prima del dibattimento, ma di determinare lo stesso contenuto della decisione, il che non può avvenire se non in riferimento a una ben individuata fattispecie penale» (sentenza n. 265 del 1994). Perciò, anche rispetto al patteggiamento, quando l’accusa è modificata nei suoi aspetti essenziali, «“non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni” (sentenza n. 237 del 2012)» (sentenza n. 273 del 2014). Al riguardo deve rilevarsi che il dovere del pubblico ministero di modificare l’imputazione per diversità del fatto risulta strettamente collegato al principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 cod. proc. pen.), partecipando, quindi, della medesima ratio di garanzia. Dunque, come ritiene la giurisprudenza di legittimità, non qualsiasi variazione o puntualizzazione, anche meramente marginale, dell’accusa originaria comporta tale obbligo, «ma solo quella che, implicando una trasformazione dei tratti essenziali dell’addebito, incida sul diritto di difesa dell’imputato: in altre parole, la nozione strutturale di “fatto”, contenuta nell’art. 516 cod. proc. pen., va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni delle facoltà difensive. Correlativamente, è di fronte a simili situazioni – e solo ad esse – che emerge anche l’esigenza di riconoscere all’imputato la possibilità di rivalutare le proprie opzioni sul rito» (sentenza n. 273 del 2014).

Avv. Carlo Maria Binni - Delegato Cassa Forense

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