L'incompatibilità
21/06/2012
Stampa la paginaDell’esercizio continuativo della professione si è già trattato nel precedente numero di questa newsletter.
Occorre ora analizzare le situazioni di incompatibilità (spesso ignorate o poco conosciute dagli avvocati) che precludono il riconoscimento degli anni ai fini previdenziali.
Come noto, i requisiti necessari per l’iscrizione all’albo professionale sono indicati dalla nostra legge professionale, il Regio Decreto Legge 27 novembre 1933 n. 1578, come convertito nella L. 22 gennaio 1934 n. 36 e successive modifiche.
E’ ovvio che solo l’attività professionale svolta legittimamente, nell’osservanza delle norme dell’ordinamento professionale, possa considerarsi rilevante per l’accesso alla previdenza e il conseguimento delle relative prestazioni.
L’esercizio dell’attività in una delle situazioni di incompatibilità previste dalla legge professionale risulta quindi preclusiva, da un lato, dell’iscrizione alla Cassa Forense, dall’altro, del riconoscimento dei relativi periodi ai fini previdenziali, anche nel caso in cui l’incompatibilità stessa non sia stata accertata dal competente Consiglio dell’Ordine.
A tale proposito, va rilevato che la giurisprudenza ha espressamente riconosciuto l’autonomo diritto di Cassa Forense di accertare, in qualsiasi momento, la causa di incompatibilità e di dichiarare la cancellazione dell’iscrizione all’ente stesso per il relativo periodo.
Ne deriva che l’obbligo di contribuzione nei confronti della Cassa Forense da parte dell’iscritto viene legittimamente assolto laddove si fondi su una ‘regolare’ iscrizione all’ente, vale a dire accompagnata dall’iscrizione all’albo e dall’effettivo esercizio della professione nell’osservanza delle regole che la disciplinano.
In caso contrario, la contribuzione pur effettuata dal professionista nei confronti dell’ente, determinerebbe quale unico effetto il diritto di ottenere la restituzione di quanto versato.
Passiamo quindi all’esame dell’art. 3 della legge professionale, norma di non facile interpretazione, che prevede i vari casi di incompatibilità.
L’articolo in questione statuisce anzitutto che l'esercizio della professione di avvocato “è incompatibile con l'esercizio della professione di notaio, con l'esercizio del commercio in nome proprio o in nome altrui, con la qualità di ministro di qualunque culto avente giurisdizione o cura di anime, di giornalista professionista, di direttore di banca, di mediatore, di agente di cambio, di sensale, di ricevitore del lotto, di appaltatore di un pubblico servizio o di una pubblica fornitura, di esattore di pubblici tributi o di incaricato di gestioni esattoriali”.
La stessa norma prevede altresì l’incompatibilità “con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Province, dei Comuni, delle istituzioni pubbliche di beneficenza, della Banca d'Italia, della lista civile, del gran magistero degli ordini cavallereschi, del Senato, della Camera dei deputati ed in generale di qualsiasi altra Amministrazione o istituzione pubblica soggetta a tutela o vigilanza dello Stato, delle Province e dei Comuni”, stabilendo peraltro un’eccezione per le seguenti categorie:
a) professori e assistenti universitari e degli altri istituti superiori e professori degli istituti secondari dello Stato;
b) avvocati, iscritti nell'elenco speciale annesso all'albo, degli uffici legali istituiti sotto qualsiasi denominazione ed in qualsiasi modo presso gli enti citati, per quanto concerne le cause e gli affari propri dell'ente presso il quale prestano la loro opera.
Infine, l'esercizio della professione di avvocato risulta incompatibile “con ogni altro impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario”.
La ratio della norma che prevede i casi di incompatibilità è individuata da dottrina e giurisprudenza nella necessità di garantire libertà e indipendenza della professione, che potrebbero essere compromesse dal contemporaneo esercizio indiscriminato di altre attività lavorative. Si è tra l’altro affermato che l’esercizio delle attività indicate come incompatibili potrebbe incidere negativamente sulla libertà di determinazione del professionista, ponendosi in contrasto con l’esigenza di autonomia, di prestigio ed efficienza della classe forense.
Va evidenziato che il Codice Deontologico Forense impone all’avvocato di “evitare situazioni di incompatibilità ostative alla permanenza nell’albo” e configura una infrazione disciplinare nel comportamento del professionista che abbia “richiesto l’iscrizione all’albo in pendenza di cause di incompatibilità, ancorché queste siano venute meno”.
Franco Smania - Delegato di Cassa Forense