Libera(lizzate)ci dal male
16/12/2011
Stampa la paginaL’avvocato difende e tutela gli interessi delle persone; è garante della Costituzione e del sistema di diritto, partecipando in ciò al ruolo centrale della magistratura, in parte bilanciandone l’esercizio.
L’avvocatura ricopre dunque una veste particolarmente delicata. L’avvocatura non può quindi in alcun modo essere equiparata all’impresa, perché la prima è fondata sui valori di autonomia e indipendenza, dignità e decoro, che infondono in genere le libere professioni ma che per l’avvocatura ne rappresentano l’anima.
Il richiamo ossessivo in questi mesi, da parte del legislatore, di Confindustria e dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato al principio di libera concorrenza non è solo ingannevole ma è una palese menzogna.
Ciò per almeno 3 motivi. Il primo è che l’avvocatura non può essere liberalizzata indiscriminatamente, consentendola a chiunque. Verrebbe meno la garanzia di una rigorosa tutela dei diritti perché una cattiva tutela corrisponde a nessuna tutela. Il secondo è che, a ben vedere, la professione forense è già libera atteso che si pretende solo un percorso scientifico rigoroso (laurea in legge; praticantato; esame di Stato) ma chiunque può accedervi. Il terzo è, come già anticipato, che l’avvocatura e la professione medica non sono certamente imprese. Analogamente ad altre libere professioni.
Vero è che le libere professioni debbano essere riformate, al pari degli Ordini che ne garantiscono il controllo ma ciò salvaguardando i principi fondamentali di essi e preservandoli appunto dalla mercificazione e dalla perdita di autonomia e indipendenza. Se le riforme giacciono non è certo colpa dell’avvocatura ma della classe politica.
Tuttavia la liberalizzazione, giustamente respinta al mittente dall’avvocatura (che non si è erta come casta ma bensì a difesa dei propri principi, nell’interesse precipuo anche dei cittadini) e dalle libere professioni in genere, è un inganno malevolo. Perlomeno nel caso della pretesa “liberalizzazione dell’avvocatura” lo scopo non è la maggiore tutela economica dei cittadini ma la maggiore tutela di Confindustria che vuole raggiungere due obiettivi importanti: spendere assai meno in parcelle e possibilmente assorbire l’avvocatura in banche e assicurazioni rendendo dipendenti (e dunque non più liberi e autonomi) i liberi professionisti.
Il legislatore è ancor più ingannevole perché getta fumo negli occhi dei suoi elettori con la pretesa di liberalizzare le “libere professioni” così da nascondere ancora oggi le omissioni nel garantire un libero mercato nei settori fondamentali e strategici (energia; trasporto ferroviario; banche; posta etc.) dell’economia italiana.
Ora, la legge di stabilità intende colpire l’autonomia dell’avvocatura nelle sue fondamenta: l’assetto ordinistico e la Cassa. Tutto ciò recitando un mantra, in partenza pur condivisibile: sistema pensionistico sano ed equo tra generazioni; liberalizzazione del mercato. Quanto all’obiettivo da colpire, purtroppo si sta sbagliando.
La “previdenza privata” è composta da 2,4 milioni tra iscritti attivi e pensionati che assicurano circa il 3 per cento del Pil italiano. Fino a ieri il legislatore prescriveva 30 anni di sostenibilità (finanziaria 2007), ora 50 (somma di 30 anni di contribuzione minima e di 20 anni di aspettativa di vita nel godimento della pensione ex lege 27.12.2006, n. 296, Finanziaria 2007) da garantire entro pochi mesi. Un volo carpiato, posto in un Capo intitolato “Riduzioni di spesa. Pensioni” surreale in quanto la previdenza privata non costa allo Stato, il quale è parassitario chiedendo doppiamente le tasse: sulle pensioni e sul rendimento del patrimonio.
I professionisti italiani intellettuali hanno il diritto di vedere rispettata l’autonomia previdenziale. Soprattutto l’autonomia.
Giova riflettere sui numeri riportati or ora dall’AdEPP che raggruppa quasi tutte le Casse private.
Nel 2010 le Casse hanno incassato 7,6 miliardi di contribuzioni e pagato 4,8 miliardi di prestazioni, con un saldo tecnico di 2,8 miliardi. Il patrimonio aggregato degli enti, con gli immobili valutati al loro costo storico ammonta al 31.12.2010 ad oltre 42 miliardi di Euro. Non noccioline.
Quale interesse avrebbe lo Stato a portarsi in pancia un debito previdenziale (circa 100 miliardi) che oggi grava sugli iscritti? Le Casse non costano, anzi sfamano lo Stato. Ora si vuole solo fare vilmente “cassa con le Casse” mettendo subito mano al tesoretto attuale di 42 miliardi. Per il debito si vedrà. L’intento occulto è di far confluire le Casse all'interno dell'Inps. Da anni palesato in più occasioni.
Coprire vent'anni in pochi mesi senza poter inserire nel calcolo di sostenibilità anche il patrimonio di ciascun ente, posto che la ricchezza di ciascuna cassa è formata da beni mobili e immobili. Perché, gli investimenti non derivano dai contributi? Anche in ciò il legislatore è irragionevole (probabilmente v’è anche un profilo di illegittimità) ed in palese mala fede. Una missione impervia pretesa dal nuovo governo con l’intento di minarne certamente l’autonomia dei liberi professionisti.
Vige tuttavia nella nostra Carta Costituzionale il principio di uguaglianza. Secondo la Fornero la previdenza va uniformata. Ergo, stessi diritti e stessi doveri. Tale norma non può non valere anche per la Previdenza pubblica. Sicché – in sede di conversione del D.L. 201/11 si imponga tale prescrizione anche all’INPS. La quale ha erogato nel 2010 190 miliardi di spesa pensionistica.
Dimostri l’INPS di garantire la sostenibilità per i prossimi 50 anni.
Marcello Adriano Mazzola