Il mercato regola l'Avvocatura?

di Marcello Adriano Mazzola

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La querelle che ha visto contrapposto il CNF all'Autorità garante della concorrenza e del mercato è di assoluto rilievo, come già qua evidenziato in passato, poiché di fatto centra alcuni temi fondamentali, che appaiono sullo sfondo ma che in realtà non lo sono affatto, anzi ponendosi come frangiflutti dinanzi alla mercificazione dei diritti e dinanzi alla arrogante pretesa che l’economia regoli i destini delle vite umane: a) l’equiparazione piena tra avvocato e impresa (voluta da AGCM e pure dal legislatore con l’input di Confindustria), ignorando le particolari funzioni di chi esercita il diritto di difesa, ancorchè su mandato del cliente, e di chi partecipa alla giurisdizione; b) conseguentemente l’applicazione di regole mercatali sterili e asettiche (concorrenza libera e spietata, con una pubblicità senza confini) a funzioni delicate come quelle di un avvocato (regolamentate e irrigidite da un Codice Deontologico, baluardo della dignità e anche a tutela delle qualità defensionali, in favore del cliente).
In pratica AGCM ha voluto imporre una deriva barbarica all’avvocatura, senza alcun confine né regolamentazioni di sorta, di fatto abrogando, con la sua decisa e fragorosa entrata in campo, il Codice Deontologico Forense. Sposando implicitamente un assioma che pochi hanno colto, ma che è ben riposto sullo sfondo dei provvedimenti AGCM ed in parte avallati assai discutibilmente dai giudici di Palazzo Spada, secondo cui, come tratteggiato prima: il mercato regola l’avvocatura. La dignità (e si badi bene, non solo dell’avvocato, e dunque del suo compenso, ma soprattutto delle sue funzioni a tutela del cliente stesso) deve cedere il passo al mercato. Come se l’avvocato fosse un pizzicagnolo.
Dunque, secondo la prospettiva di AGCM, un avvocato potrebbe ben essere libero di offrire i propri servigi intellettuali (nonché di riflesso gravi responsabilità) a 1 euro tutto compreso, con la fidelity card, con ricchi premi e cotillons, con hostess reclamizzatrici, in TV nelle televendite, nelle corsie di un ospedale, ai funerali, con la bancarella e il chioschetto. Senza regole se non quella del libero mercato, questo è il punto d’approdo.
Come direbbe Totò: "Ma mi faccia il piacere!”".


Ci fa dunque invece piacere che il Tar del Lazio, sez. I, con la sentenza 11 novembre 2016, n. 11169 abbia accolto in pieno le ragioni del CNF che aveva contestato la seconda multa, per motivi sia di rito che di merito. Scrivendo in particolare i giudici come "Dalla semplice lettura del provvedimento appare chiaro come la delibera abbia un contenuto diverso dal parere n. 48/2012, oggetto del precedente provvedimento sanzionatorio. Il parere del 2012, per quanto espressamente ritenuto dall’Autorità, inibiva, infatti, l’utilizzo della pubblicità informatica da parte degli avvocati, mentre la delibera dell’ottobre 2015 non fa affatto riferimento ad analoga preclusione, atteso che la stessa non menziona alcun divieto di utilizzo delle piattaforme informatiche e censura esclusivamente le pratiche di accaparramento di clienti a mezzo di procacciatori di affari, a prescindere dal mezzo utilizzato. La circostanza che, in sede del primo procedimento antitrust, la ricorrente avesse prospettato, a fini difensionali, una rilettura della delibera 2012 in termini di limitazione del divieto posto all’utilizzo della piattaforma web alle sole ipotesi in cui fosse finalizzato ad una modalità illecita di acquisizione di clientela non può assolutamente deporre nel senso della coincidenza del contenuto del parere del 2012 e della delibera 2015, atteso che la lettura “ortopedizzante” proposta a suo tempo dal CNF non è stata condivisa dall’Autorità, la quale ha invece incentrato il provvedimento sanzionatorio sul fatto che il parere del 2012 avesse illecitamente stabilito il divieto di utilizzo di piattaforme informatiche di reindirizzamento. Erroneamente, quindi, nel provvedimento oggi impugnato, l’AGCM ha ritenuto la sussistenza di un’ipotesi di inottemperanza ai sensi dell’art. 15 e non di una fattispecie autonomamente rilevante, come ha correttamente ritenuto in relazione all’art. 35.".
Quanto meno pare che i giudici abbiano perlomeno salvaguardato (indirettamente sia chiaro) il divieto di accaparrarsi la clientela.


Il Tar ha poi ravvisato la violazione del principio del contraddittorio nel corso del procedimento istruttorio poichè il CNF non è stato sentito dall'Autorità, non ha ricevuto la comunicazione delle risultanze istruttorie nè ha avuto la possibilità di esporre le proprie difese nell’audizione finale dinanzi al Collegio. Il Tar ha escluso che ambedue le condotte contestate costituiscano un’ipotesi di inottemperanza, poiché "Con riguardo alla mancata emanazione di un provvedimento espresso di revoca della delibera 2012, deve, infatti, considerarsi come, secondo i recenti orientamenti del Consiglio di Stato, la conservazione in vita di un atto di un’associazione con contenuto anticoncorrenziale non integra, a differenza della sua adozione, un comportamento rilevante ai fini antitrust, atteso che il disvalore della condotta si concentra nella mera volizione, che rileva quale illecito istantaneo, senza che la permanenza degli effetti di divieto possa essere ricondotta ad un effetto permanente del medesimo illecito".
Giova comunque riassumere la convulsa vicenda, per consentire una visione d’insieme sui fatti succedutesi: 1) con provvedimento AGCM 22 ottobre 2014, n. 25154 è stata inflitta una multa di ben 912 mila euro al CNF poiché avrebbe realizzato "un’intesa unica e continuata, restrittiva della concorrenza, consistente nell’adozione di due decisioni volte a limitare l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato". Le due decisioni concernevano la circolare n. 22-C/2006 (con la quale il CNF avrebbe stigmatizzato quale illecito disciplinare la richiesta di compensi inferiori ai minimi tariffari) ed il parere n. 48/2012 relativo al caso AmicaCard (il CNF avrebbe limitato l’utilizzo di un canale promozionale e informativo attraverso il quale si pubblicizza anche la convenienza economica della prestazione professionale); 2), il Tar Lazio, sentenza 1 luglio 2015, n. 8778 accoglie parzialmente il ricorso del CNF contro la multa milionaria; 3) con provvedimento AGCM 11 novembre 2015, n. 25705 la multa viene ridotta a 513 mila euro; 4) il Consiglio di Stato, sentenza 22 marzo 2016, n. 1164, accoglie il ricorso dell'AGCM  e respinge  quello del CNF, ripristinando la sanzione nell'importo originario di 912 euro; 5) a giugno del 2015, l'Agcom avvia un nuovo procedimento per inottemperanza all'ordine di rimozione del parere n. 48/2012 relativo al caso "Amica Card" (provvedimento n. 25847 del 15 giugno 2015) e lo conclude con una nuova multa milionaria inflitta al CNF con provvedimento AGCM 10 febbraio 2016, n. 25868; 6) il Tar Lazio, sentenza 11 novembre 2016, n. 11169 annulla il provvedimento.
Come si può notare, pare una partita a scacchi tra due giocatori. Uno di essi ha però lo strabismo di venere.


Avv. Marcello Adriano Mazzola - Delegato di Cassa Forense

*****


T.A.R. Lazio – Roma, Sezione I, Sentenza 11 novembre 2016, n. 11169
N. 11169/2016 REG.PROV.COLL.

N. 05063/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5063 del 2016, proposto da:
Consiglio Nazionale Forense, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Davide Calabrò C.F. CLBDVD57T03F620S, Mario Sanino C.F. SNNMRA38E03H501M, Giuseppe Colavitti C.F. CLVGPP70L27B354I, Roberto Mastroianni C.F. MSTRRT64M03D086J, Fabio Cintioli C.F. CNTFBA62M23F158G, elettivamente domiciliato in Roma, Viale Parioli, 180, presso lo studio dell’avv. Mario Sanino;

contro

l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale domicilia in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

Nethuns Srl, non costituita in giudizio;

per l'annullamento

previa sospensione dell’esecuzione


- del provvedimento adottato nella adunanza del 10 febbraio 2016 con il quale è stata dichiarata l’inottemperanza del Consiglio Nazionale Forense al provvedimento AGCM n. 25154 del 22 ottobre 2014 ed è stata comminata allo stesso la sanzione amministrativa pecuniaria di € 912.536,40;

- di ogni altro atto annesso, connesso, presupposto e consequenziale, ivi compreso, in quanto occorrer possa e in parte qua il d.P.R. 30 aprile 1998, n. 217 “Regolamento in materia di procedure istruttorie di competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato”.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 ottobre 2016 la dott.ssa Roberta Cicchese e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con provvedimento n. 25154 del 22 ottobre 2014 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora innanzi anche Autorità o AGCM) riteneva che il Consiglio Nazionale Forense (d’ora innanzi Consiglio o CNF), avesse posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza in violazione dell’art. 101 TFUE ed irrogava al medesimo la sanzione amministrativa pecuniaria di € 912.536,40.

La condotta illecita veniva ravvisata nell’adozione di due decisioni, ritenute idonee a limitare l’autonomia dei singoli avvocati rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato.


In particolare, per quanto qui rileva, l’AGCM riteneva integrare comportamento anticoncorrenziale l’adozione del parere n. 48 dell’11 luglio 2012, reso dal CNF in risposta ad una richiesta del Consiglio dell’Ordine di Verbania sulla compatibilità con l’art. 19 del Codice deontologico dell’offerta, da parte di un avvocato, di prestazioni professionali scontate mediante siti web (in concreto si trattava del sito Amica Card).
Nel parere il Consiglio aveva censurato l’utilizzo della pubblicità tramite circuiti web, in quanto non destinata ad esaurirsi nel fine promozionale ma diretta alla concreta acquisizione del cliente, sottolineando altresì come tale modalità di pubblicità permetterebbe “di raggiungere in via aspecificamente generalizzata il consumatore … tramite i suoi strumenti di accesso alla rete” e di enfatizzare oltremodo la convenienza della prestazione professionale, così da costituire illecito disciplinare.
L’Autorità riteneva che il parere avesse illegittimamente limitato l’impiego, da parte degli avvocati, di un importante canale messo a disposizione delle nuove tecnologie per la diffusione dell’informazione circa la natura e la convenienza dei servizi professionali offerti, potenzialmente in grado di raggiungere un ampio numero di consumatori sul territorio nazionale (cfr. provvedimento del 22 ottobre 2014, § 125 s.s.).
L’AGCM evidenziava pure come tale forma di pubblicità aumenta la trasparenza del mercato, colmando le lacune informative dei consumatori, e costituisce una importante leva del processo concorrenziale, affermando poi che non fosse condivisibile la differenza, prospettata dal CNF in sede procedimentale, tra pubblicità fatta dal singolo professionista tramite il proprio sito web e quella fatta ricorrendo a vetrine on line, quali quella di Amica Card, essendo del tutto indimostrato che tale ultima modalità potesse integrare una forma di illecito accaparramento di clienti.
Con il medesimo provvedimento 25154 il CNF veniva pure invitato a: a) porre termine all’infrazione, dandone adeguata comunicazione agli iscritti, b) astenersi in futuro dal porre in essere comportamenti analoghi a quello oggetto dell’infrazione accertata e c) comunicare all’Autorità, entro il 28 febbraio 2015, l’adozione delle misure richieste.


Con successiva delibera del 27 maggio 2015, n. 25487, l’Autorità, ai sensi dell’art. 15, comma 2, della legge n. 287/1990, avviava un nuovo procedimento, per contestare al CNF l’inottemperanza alla precedente delibera n. 25154 del 22 ottobre 2014.
In proposito l’AGCM rilevava come, sulla base di accertamenti effettuati nelle date 7, 13 e 21 maggio 2015, il parere 48/2012 non risultava rimosso né dalla banca dati del CNF né dalla sezione del sito web dedicato alla deontologia forense, rilevando altresì che non risultavano adottati, in relazione al suddetto parere, provvedimenti espressi di revoca.
Altro profilo di inottemperanza veniva rilevato nell’introduzione, nel nuovo codice deontologico entrato in vigore il 15 dicembre 2014, dell’articolo 35, il quale ribadiva la legittimità dell’utilizzo dei soli siti web con domini propri, senza reindirizzamento, e prevedeva altresì la necessità che le forme e le modalità delle informazioni pubblicitarie rispettassero i principi di dignità e decoro della professione, la violazione dei quali rileva a fini disciplinari.
Nel corso del procedimento, il CNF, il 16 novembre 2015, trasmetteva all’Autorità sia il verbale dell’adunanza del 23 ottobre 2015, contenente l’interpretazione autentica del parere n. 48/2012, che la modifica dell’art. 35 del codice deontologico.
Nell’adunanza del 10 febbraio 2016 l’Autorità emetteva un nuovo provvedimento sanzionatorio con il quale riteneva che la mancata emanazione di un provvedimento espresso di revoca del parere 48/12 e la successiva la delibera interpretativa del medesimo parere, adottata dal CNF in data 23 ottobre 2015, costituissero un comportamento inottemperante al precedente provvedimento sanzionatorio del 22 ottobre 2014.
Tale delibera, a giudizio dell’Autorità, nello stigmatizzare come comportamento deontologicamente scorretto la ricerca e l’acquisizione di clientela attraverso la suggestione creata dalla convenienza economica, replicherebbe i profili di anticoncorrenzialità già ravvisati nel parere interpretato.


Con il medesimo provvedimento l’AGCM escludeva che l’adozione da parte del CNF dell’art. 35 del codice deontologico costituisse inottemperanza al proprio precedente provvedimento sanzionatorio.
La sanzione veniva quindi fissata in € 912.536,40, pari al 10% del fatturato.
Avverso tale nuovo provvedimento sanzionatorio è insorto il Consiglio Nazionale Forense, che ha articolato i seguenti motivi di doglianza.
1 Violazione di legge. Violazione degli artt. 41, 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Violazione dell’art. 14 della legge 287 del 1990. Violazione dell’art. 14 del d.P.R. 30 aprile 1998, n. 287, recante regolamento in materia di procedure istruttorie di competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio. Violazione del principio di legalità.
Il procedimento, all’esito del quale è stato adottato il provvedimento impugnato, sarebbe stato caratterizzato da gravi violazioni in materia di diritto di difesa e di diritto al contraddittorio.
In particolare: a) le audizioni della parte si sono svolte solo davanti ai funzionari dell’Autorità e non innanzi al collegio, b) alla parte ricorrente non è stata notificata la chiusura delle risultanze istruttorie, c) alla parte ricorrente non è stato consentito esprimere davanti al Collegio la propria posizione in merito alla nuova sanzione ed ai criteri utilizzati per determinarne l’importo.
L’iter procedimentale descritto, adottato sull’erroneo assunto che la condotta esaminata fosse ascrivibile ad un’ipotesi di inottemperanza, sarebbe in contrasto con la previsione contenuta nell’art. 14 del d.P.C.M. n. 217/1998 e con i principi comunitari in materia di diritto di difesa, collegati alla natura sostanzialmente “penale” della sanzione irrogata ed avrebbe, in concreto, condotto ad una decisione assunta senza una approfondita valutazione della prospettazione del soggetto inciso dalla stessa.


2 Violazione di legge. Violazione dell’art. 15 della legge n. 287/1990 per errata qualificazione del comportamento del CNF come reiterativo della violazione dell’art. 101 TFUE. Violazione dell’art. 3 della legge n. 247/2012. Violazione dell’autonomia deontologica e della giurisprudenza della Corte suprema di cassazione.
Il comportamento considerato inottemperante al precedente procedimento sanzionatorio emanato dall’Autorità nel 2014, e consistito nell’adozione della delibera consiliare emessa nel 2015, sarebbe privo della ritenuta idoneità ad reiterare la violazione già sanzionata.
La nuova delibera, infatti, pur muovendo da una finalità interpretativa del precedente parere, già valutato come integrante una violazione dell’art. 101 del TFEU, era espressamente finalizzata ad espungere dalla precedente delibera i profili di anticoncorrenzialità individuati nel provvedimento sanzionatorio del 2014.
Proprio per tale ragione, sostiene la ricorrente, la delibera del 2015 ha affermato il principio di libertà dei mezzi pubblicitari, compresi quelli telematici, affermando, tuttavia, il divieto, derivante dalla applicazione dei principi deontologici, di pagare terzi procacciatori di affari e clienti, nonché la necessità, già stabilita dal legislatore, di una pubblicità professionale veritiera e non ingannevole.
Con il provvedimento gravato, inoltre, l’Autorità avrebbe avocato a sé una competenza che il legislatore ha espressamente attribuito al Consiglio, e cioè quella di dettare le norme di deontologia professionale, privando pure di efficacia precettiva le disposizioni normative in forza delle quali la professione forense deve essere esercitata “con dignità e decoro”.
In via subordinata, la ricorrente contesta la riconducibilità della delibera oggetto del gravato provvedimento sanzionatorio ad una vera e propria ipotesi di violazione dell’art. 15 della legge n. 287/1990, in considerazione del fatto che l’inottemperanza è stata in passato ritenuta sussistente dall’AGCM solo in casi di univoca e pedissequa reiterazione del comportamento già sanzionato, tanto più che, nel caso in esame, la delibera del 2015 avrebbe, in ogni caso, revocato la precedente delibera del 2014.


3. Violazione di legge. Violazione del diritto di difesa, dei principi del contraddittorio e dell’equo procedimento, violazione del principio di proporzionalità in merito alla quantificazione della sanzione (art. 6 e 7 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, artt. 41 e 49 carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).
La sanzione in concreto inflitta dall’Autorità sarebbe assolutamente sproporzionata rispetto al comportamento tenuto dalla ricorrente, tanto più che il provvedimento finale emesso dall’AGCM ha ritenuto la sussistenza di una sola delle ipotesi di inottemperanza contestate nella comunicazione di avvio del procedimento, dalla quale, come già esposto nel corso del primo motivo di ricorso, il Consiglio non ha neppure avuto modo di difendersi in maniera piena.
4 Violazione dell’art. 101 TFUE e della direttiva 2006/123. Violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE. Violazione della legge n. 247/2012 (artt. 3, 10 e 35).
Il provvedimento impugnato, come già evidenziato in sede di ricorso avverso il provvedimento sanzionatorio del 2014, violerebbe i principi comunitari sia in materia di rapporti tra regole antitrust e norme deontologiche, sia in punto di quantificazione della sanzione. Parte ricorrente rinnova quindi la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea delle questioni dedotte con il presente motivo.
Si è costituita l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
All’udienza del 19 ottobre 2016 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è fondato e va accolto.
Il provvedimento impugnato è stato emesso dall’AGCM ai sensi dell’art. 15, della legge n. 287/1990, avendo l’Autorità ritenuto la ricorrenza di un’ipotesi di inottemperanza ad una propria precedente decisione.
Con il primo motivo di doglianza la ricorrente ha contestato l’iter procedimentale seguito per giungere all’emanazione del provvedimento impugnato, rappresentando come siano state violate le garanzie del contraddittorio poste dagli articoli 14 della legge n. 287/21990 e dal d.P.C.M. n. 217/1998, oltre che dai principi generali collegati alla natura quasi penale del procedimento.


In particolare la ricorrente lamenta: a) di non essere stata sentita dal Collegio dell’Autorità nel corso del procedimento istruttorio; b) di non aver ricevuto la comunicazione delle risultanze istruttorie; c) di non aver avuto la possibilità di esporre le proprie difese nell’audizione finale dinanzi al Collegio dell’Autorità.
La difesa erariale, per contro, ha sostenuto che il procedimento di accertamento dell’inottemperanza soggiace ad una procedure semplificata, per la quale, in mancanza di apposita disciplina ad hoc ed in virtù del richiamo contenuto nell’art. 31 della legge n. 287/1990, si applicano le norme generali della legge n. 689/1981.
La prospettazione di parte ricorrente deve essere condivisa.
L’art. 15 della legge n. 287/1990, dopo aver individuato, al comma 1, procedure e sanzioni da applicarsi nel casi in cui l’Autorità ravvisi la ricorrenza di un’intesa restrittiva della concorrenza o di un abuso di posizione dominante, al comma 2 stabilisce che "In caso di inottemperanza alla diffida di cui al comma 1, l'Autorità applica la sanzione amministrativa pecuniaria fino al dieci per cento del fatturato ovvero, nei casi in cui sia stata applicata la sanzione di cui al comma 1, di importo minimo non inferiore al doppio della sanzione già applicata con un limite massimo del dieci per cento del fatturato come individuato al comma 1, determinando altresì il termine entro il quale il pagamento della sanzione deve essere effettuato. Nei casi di reiterata inottemperanza l'Autorità può disporre la sospensione dell'attività d'impresa fino a trenta giorni".
La norma non contiene specifiche previsioni procedimentali.
Detta omissione, tuttavia, non integra una lacuna normativa, sia in considerazione del fatto che la norma è collocata all’interno del capo II del titolo II della legge n. 287/1990, che contiene le norme procedurali generali in materia di tutela della concorrenza, sia in considerazione del fatto che il procedimento di accertamento dell’inottemperanza condivide con il procedimento antitrust ordinario la medesima esigenza di tutela rafforzata del contraddittorio, derivante dalla particolare natura afflittiva della sanzione.


Considerato, inoltre, che l’art. 31 invocato dalla difesa erariale si limita a richiamare le disposizioni contenute nel capo I, sezioni I e II, della legge 24 novembre 1981, n. 689, “in quanto applicabili”, senza prevedere un generale rinvio alla legge medesima, non appare dubbia, a giudizio del Collegio, l’applicabilità al procedimento di accertamento dell’inottemperanza della disciplina dettata dagli artt. 12, 13 e 14 della legge n. 287/1990 e dall’art. 14 del d.P.R. n. 217/1998, contenente il "Regolamento recante norme in materia di procedure istruttorie di competenza dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato".
Dalla lettura di tali disposizioni emerge come, in materia di accertamento di intese anticoncorrenziali, pur non essendovi una rigida procedimentalizzazione e una netta distinzione tra fase istruttoria e fase decisionale, vi sia una diversificazione tra funzioni e competenze degli uffici - cui è rimessa un’attività di materiale acquisizione istruttoria e di comunicazione alle parti della scansione procedimentale - e competenze del Collegio, cui compete l’attività squisitamente valutativa propria dell’Autorità indipendente, ivi inclusa quella dell’audizione delle parti laddove ne facciano espressa richiesta "entro cinque giorni dal ricevimento della comunicazione delle risultanze istruttorie" (art. 14, comma 5, d.P.R. n. 217/1998).
Tale ultima comunicazione assolve, quindi, ad una peculiare ed ineludibile finalità di garanzia del contraddittorio, atteso che, oltre a delimitare definitivamente l’oggetto del futuro provvedimento sanzionatorio, essa orienta anche il contenuto e le forme dell’attività difensiva della parte, tanto più laddove in tale sede, si proceda, pur nel solco della contestazione formulata in sede di avvio del procedimento e senza operare una variazione sostanziale della medesima, alla contestazione di nuove e distinte violazioni.
Non vi è dubbio che, nel caso in esame, le citate prescrizioni procedimentali sono stata violate.


Ed infatti, risulta dalla lettura del provvedimento impugnato come il ricorrente Consiglio, nel corso dell’intero procedimento, abbia potuto articolare la sua difesa solo davanti a rappresentanti degli uffici, i quali, talvolta, come si legge in più punti dei verbali, hanno anche espresso la propria valutazione sulla rilevanza anticoncorrenziale dei fatti esaminati, ciò che depone nel senso della censurata confusione tra il piano dell’acquisizione istruttoria e quello della valutazione dei fatti.
Né può rilevare, come pure sostenuto dalla difesa erariale, il fatto che, nel corso del procedimento, l’odierno ricorrente non ha rappresentato esigenze difensive ulteriori rispetto all’audizione innanzi agli uffici o alla presentazione di memorie, essendo stata, comunque, raggiunta la finalità partecipativa.
Deve, infatti osservarsi, come il raggiungimento della finalità partecipativa va correlato alla complessità del provvedimento a cui la partecipazione inerisce e all’oggettivo contenuto del provvedimento finale, così che la mera conoscenza dell’esistenza del procedimento (o una conoscenza incompleta dell’oggetto del medesimo) risulta sicuramente insufficiente, laddove la stessa non consenta il pieno dispiegarsi di una adeguata attività difensiva.
Neppure può convenirsi sull’esistenza di un onere della parte di contestare, già in corso di procedimento, le eventuali violazioni procedurali ravvisate.
La mancata comunicazione delle risultanze istruttorie, quindi, appare di particolare rilievo nel caso in esame, in considerazione del fatto che, mentre nella comunicazione di avvio del procedimento erano stati contestati un comportamento omissivo (mancata revoca espressa) ed un comportamento attivo (emanazione dell’art. 35 del codice deontologico), nel provvedimento finale, pur censurandosi il comportamento omissivo, la valutazione di maggior disvalore si appunta sulla adozione della delibera del 23 ottobre 2015, di interpretazione del precedente parere n. 12/2012, intervenuta in corso di procedimento.


Risulta tuttavia dall’atto impugnato e dai provvedimenti istruttori depositati in atti, come la menzione di tale condotta è avvenuta, per la prima e unica volta, nel verbale dell’audizione del 4 dicembre 2015.
Quest’ultimo, peraltro, mentre contiene una diffusa trattazione di questioni concernenti l’art. 35 del codice deontologico, dedica alla delibera del 23 ottobre pochi capoversi, nel primo del quale (pag 5 del verbale, rigo 15 e seguenti), la responsabile del servizio manufatturiero e servizi si limita a rappresentare come "ad avviso degli Uffici, la delibera non appare in grado di rimuovere le criticità concorrenziali derivanti dal parere e censurate dall’autorità nel provvedimento n. 25154/2014",  osservando come nella nuova delibera il CNF ribadirebbe la "contrarietà a comunicazioni che facciano leva sulla convenienza economica della prestazione".
Nella successiva comunicazione del termine infraprocedimentale per l’acquisizione degli elementi probatori, infine, non vi è menzione dell’impianto accusatorio finale, così che, non avendo avuto la parte piena contezza della contestazione del comportamento che avrebbe assunto valenza preponderante nella determinazione finale dell’Autorità, a nulla rileva la circostanza, rappresentata dalla difesa erariale, del non avere il CNF richiesto l’audizione finale dinanzi al Collegio.
Con il secondo motivo di doglianza, parte ricorrente ha sostenuto la non riconducibilità dei fatti sanzionati ad un’ipotesi di inottemperanza.
Anche tale doglianza è fondata, con riferimento ad entrambe le condotte considerate rilevanti dall’Autorità.
Con riguardo alla mancata emanazione di un provvedimento espresso di revoca della delibera 2012, deve, infatti, considerarsi come, secondo i recenti orientamenti del Consiglio di Stato, la conservazione in vita di un atto di un’associazione con contenuto anticoncorrenziale non integra, a differenza della sua adozione, un comportamento rilevante ai fini antitrust, atteso che il disvalore della condotta si concentra nella mera volizione, che rileva quale illecito istantaneo, senza che la permanenza degli effetti di divieto possa essere ricondotta ad un effetto permanente del medesimo illecito (Consiglio di Stato, sez. VI, 19 gennaio 2016, n. 167, che, con riferimento a norme contenute in un codice deontologico, ha osservato come "ciò che si richiede per la permanenza è la continuità della condotta nel suo rapporto causale con l’evento.


Non rileva, in altri termini, ai fini della permanenza ipotizzare una condotta omissiva ("la mancata rimozione dello stato antigiuridico precedentemente creato): ciò che è indispensabile affinché l’illecito possa dirsi permanente è che la lesione persista grazie al comportamento dell’agente. La continuità che giustifica la qualificazione della condotta in termini di permanenza deve misurarsi in rapporto alla produzione dell’evento, non in relazione alla natura del comportamento in quanto tale: in tanto la condotta potrà dirsi continua in quanto sarà causa permanente dell’offesa. Fino a quando il comportamento dell’agente avrà efficienza produttiva del risultato vietato esso si dirà continuo").
La mancanza di una revoca espressa, di conseguenza, può avere autonomo rilievo solo nel caso in cui, sulla base della delibera originaria, vengano minacciati o attivati procedimenti disciplinari nei confronti degli iscritti, ciò che è sicuramente escluso nel caso in esame, oppure quando dalla virtuale vigenza derivino degli effetti anticoncorrenziali concreti ed attuali, neppure menzionati nel provvedimento impugnato.
Con riferimento alla mancata revoca, inoltre, appare pure condivisibile quanto affermato da parte ricorrente in ordine alla necessaria valutazione sostanziale e non formale della presunta condotta inadempiente, a favore della quale depone anche l’interpretazione pregressa che del medesimo articolo 15 la stessa Autorità ha fatto in passato, come desumibile dalla casistica richiamata in ricorso, peraltro neanche contestata da parte resistente.
Deve essere quindi valutata la riconducibilità ad un’ipotesi di inottemperanza dell’adozione del parere interpretativo della delibera 48/2012.
La particolare severità sanzionatoria riservata dall’art. 15 della legge n. 287/1990 alla fattispecie de qua - per la quale è previsto un automatico raddoppio della sanzione originariamente inflitta, con il solo limite del 10% di fatturato, senza alcuna parametrazione all’oggettiva gravità della violazione e con sostanziale annullamento dei poteri di valutazione in ordine all’importanza della stessa - impone, a giudizio del Collegio, un’interpretazione rigorosamente restrittiva del concetto di inottemperanza.


In sostanza, all’automatismo del meccanismo con cui il professionista viene assoggettato alla nuova sanzione, deve corrispondere un altrettanto schematico meccanismo di accertamento, nel senso che l’inottemperanza deve ravvisarsi solo quando sussiste una, facilmente apprezzabile, reiterazione di una condotta identica a quella già oggetto di sanzione.
Viceversa, ogni qualvolta la valutazione del comportamento tenuto successivamente all’irrogazione della sanzione importi l’utilizzo di un significativo percorso interpretativo, teso ad individuare se e in che misura sia ravvisabile una modalità elusiva, deve essere attivato un nuovo ed autonomo procedimento sanzionatario, nel quale apprezzare, eventualmente anche alla luce dell’esistenza di pregresse violazioni, la oggettiva gravità della medesima.
Diversamente opinando, il secondo comma dell’art. 15, nella parte in cui prevede una completa scissione tra l’apprezzamento della gravità dei fatti e l’importo della sanzione, si presterebbe a censure di intrinseca irrazionalità, rilevanti anche sul piano costituzionale, difficilmente superabili.
Ciò è tanto più vero laddove si consideri che, diversamente da quanto accade in altri campi di competenza dell’Autorità, nei casi in cui l’AGCM è chiamata ad indagare in ordine alla ricorrenza di intese o abusi di posizione dominante, la sussumibilità di una fattispecie concreta nel paradigma normativo della norma di divieto è quasi sempre frutto di una complessa attività di indagine e di interpretazione.
Ciò premesso in via generale, appare utile riportare il contenuto della delibera del 23 ottobre 2015

"Considerato:

-che il parere n. 48/2012 si presta ad interpretazioni difformi all’effettivo scopo cui lo stesso intendeva, ed intende, perseguire,
-che lo stesso è stato pronunciato nella consapevolezza dell’evoluzione normativa che aveva portato al definitivo superamento della preventiva individuazione dei soli mezzi pubblicitari consentiti all’iscritto (principio, peraltro, ribadito anche dall’art. 10 della l. N. 247/2012) ed all’affermazione dell’opposto principio secondo il quale è consentito tutto ciò che non è espressamente vietato;


-che la libertà di informare nel modo più opportuno e con qualsiasi mezzo, ma nel rispetto dei canoni fondamentali, ha costituito e costituisce oggetto di constante riconoscimento da parte del Consiglio Nazionale Forense il quale, più volte ha avuto modo di ribadire le liceità deontologica di una pubblicità informativa resa attraverso la cartellonistica all’interno degli impianti sportivi o la utilizzazione di spazi sulla carrozzeria di automezzi;
-che, nel rispetto richiamato principio, la ratio del parere n. 48/2012 non era quella di limitare la possibilità di concorrenza tra iscritti attraverso un’informazione sulle caratteristiche della prestazione ma piuttosto quella di stigmatizzare la ricerca e l’acquisizione della clientela, e quindi l’uso di mezzi che potessero e possono facilmente degradare ad improprio accaparramento di clientela attraverso la suggestione creata esclusivamente dalla convenienza economica che, enfatizzata, sarebbe divenuta l’unico criterio per orientare la scelta dell’utente;

Ritenuta

-la necessità di precisare l’effettivo contenuto del parere n. 48/12…

Delibera

-che il parere n. 48/2012 vada interpretato come ferma stigmatizzazione dell’accaparramento della clientela con modi e mezzi non idonei ovvero come stigmatizzazione dell’acquisizione di incarichi professionali tramite l’offerta di omaggi e/o di prestazioni a terzi e/o promesse di vantaggi e/o la corresponsione di danaro a procacciatori aggiunti".
Dalla semplice lettura del provvedimento appare chiaro come la delibera abbia un contenuto diverso dal parere n. 48/2012, oggetto del precedente provvedimento sanzionatorio.
Il parere del 2012, per quanto espressamente ritenuto dall’Autorità, inibiva, infatti, l’utilizzo della pubblicità informatica da parte degli avvocati, mentre la delibera dell’ottobre 2015 non fa affatto riferimento ad analoga preclusione, atteso che la stessa non menziona alcun divieto di utilizzo delle piattaforme informatiche e censura esclusivamente le pratiche di accaparramento di clienti a mezzo di procacciatori di affari, a prescindere dal mezzo utilizzato.


La circostanza che, in sede del primo procedimento antitrust, la ricorrente avesse prospettato, a fini difensionali, una rilettura della delibera 2012 in termini di limitazione del divieto posto all’utilizzo della piattaforma web alle sole ipotesi in cui fosse finalizzato ad una modalità illecita di acquisizione di clientela non può assolutamente deporre nel senso della coincidenza del contenuto del parere del 2012 e della delibera 2015, atteso che la lettura "ortopedizzante" proposta a suo tempo dal CNF non è stata condivisa dall’Autorità, la quale ha invece incentrato il provvedimento sanzionatorio sul fatto che il parere del 2012 avesse illecitamente stabilito il divieto di utilizzo di piattaforme informatiche di reindirizzamento.
Erroneamente, quindi, nel provvedimento oggi impugnato, l’AGCM ha ritenuto la sussistenza di un’ipotesi di inottemperanza ai sensi dell’art. 15 e non di una fattispecie autonomamente rilevante, come ha correttamente ritenuto in relazione all’art. 35.
Più radicalmente, ritiene il Collegio che vada pure condivisa la contestazione di parte ricorrente secondo cui, il provvedimento gravato non individua ragioni specifiche per le quali la delibera interpretativa del 2015 avrebbe un contenuto oggettivamente anticoncorrenziale, atteso che la stessa, affermata la legittimità di qualsiasi mezzo pubblicitario, ha sostanzialmente ribadito la regola deontologica circa il divieto di pagare terzi procacciatori di affari e clienti e la regola legale secondo la quale il contenuto della pubblicità deve essere trasparente corretto e veritiero.

In conclusione il ricorso va accolto, con assorbimento di ogni altra censura.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.


P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla l’atto impugnato.

Condanna la parte soccombente al pagamento delle spese processuali, liquidate in € 5.000,00 (cinquemila/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 ottobre 2016 con l'intervento dei magistrati:

Rosa Perna, Presidente FF

Roberta Cicchese, Consigliere, Estensore

Lucia Maria Brancatelli, Referendario

L'ESTENSORE  IL PRESIDENTE
Roberta Cicchese  Rosa Perna

IL SEGRETARIO


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