Il divieto del patto di quota lite: il ritorno

di Patrizia Pisapia - Giovanni Cerri

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Quindi più che valido l’accordo tra avvocato e cliente che può consentire al professionista di concordare un compenso per la sua attività, anche ulteriore, una quota dei beni o dei diritti in lite, da calcolare in percentuale sul risultato ottenuto.
L’avvocato, pertanto, è legittimato a partecipare agli interessi dei quali ha assunto il patrocinio, a nutrire interessi sulla sorte della lite, venendo così rivalutate magicamente ex lege le doti di obiettività e serenità del professionista nell’esecuzione del mandato, che non sarebbero certo più state pregiudicate per effetto della pattuizione del compenso in ragione di una percentuale sul valore dei beni o degli interessi litigiosi.
Sennonché, la “psicoanalisi normativa” che ha rivalutato le doti di obiettività e serenità dell’avvocato a prescindere dal compenso pattuito e, particolarmente, da certe interessate modalità, ha avuto vita breve: l’art. 13, comma 4 della L. n. 247/2012 ha ripristinato il divieto del patto di quota lite. Ergo, passi pure il “premio” per l’esito vittorioso della lite quale compenso suppletivo straordinario che il cliente si obbliga a versare all’avvocato in aggiunta all’onorario (il c.d. palmario), ma nessun accordo scritto sulla determinazione del compenso è valido nella parte in cui si realizzi, in via diretta o indiretta, la cessione del credito o del bene litigioso.
Con l’art. 25, comma 2° del Codice Deontologico (approvato dal CNF il 31.1.2014) poi, il patto di quota lite, oltre che nullo, costituisce anche una violazione deontologica disciplinarmente sanzionabile con la sospensione dall’esercizio professionale da due a sei mesi.


Strano però che l’art. 2233, comma 3°, cod. civ., nella versione modificata dal c.d. Decreto Bersani del 2006, continui a recitare che siano nulli i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati al patrocinio con i loro clienti se non redatti in forma scritta, con l’unico limite discendente dal disposto di cui all’art. 1261, consentendo di ritenere che possano essere stipulabili patti di quota lite.
Per vero l’art. 13 della Legge Professionale n. 247/2012 si pone come norma speciale rispetto al generale divieto di cessione dei crediti litigiosi di cui all’art. 1261 cod. civ. e pertanto, gli eventuali patti sul compenso stipulati in violazione dell’art. 13 restano inevitabilmente nulli.
Orbene, pare tuttavia che la mancanza di serenità ed obiettività nell’adempimento del mandato qualora il compenso percepito sia in tutto o in parte legato ad una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa, sia “deformazione” tipicamente legale.
Con una recente sentenza, gli Ermellini chiamati ad interpretare il testo dell’art. 2233, comma 3 cod. civ. ante riforma 248/2006, che giova riportare prevedeva che: “gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni”, sono giunti alla conclusione che il divieto del patto di quota lite viga soltanto per chi svolga attività difensiva. Ci si riferisce alla pronuncia n. 20839 del 2.10.2014, della II sez. civ, emessa sulla scorta del ricorso proposto da un consulente del lavoro che aveva ricevuto incarico da una società di individuare soluzioni giuridiche e/o amministrative che consentissero alla cliente di godere di agevolazioni previste per le aziende industriali del mezzogiorno, nella specie, per ottenere sgravi degli oneri sociali sui contributi INPS, procedendo altresì alla ripetizione dei contributi già versati. Nel caso di specie il consulente pattuiva con la società un compenso del 25% sui contributi già pagati e recuperati, e quindi un patto di quota lite.


La Corte di Cassazione accogliendo il ricorso del consulente del lavoro ha ritenuto che l’art. 2233, comma 3, cod. civ. (si ribadisce nel testo vigente ante riforma 248/2006) disponesse in modo inequivoco il divieto del patto di quota lite per la sola attività di assistenza e rappresentanza in giudizio (l’attività del consulente era consistita in un’attività amministrativo-contabile e non nel patrocinio innanzi alla Commissione tributaria). I giudici di legittimità, quindi, cassando con rinvio la sentenza impugnata, enunciando il seguente principio di diritto: “la disposizione di cui all’art. 2233, terzo comma, cod. civ. - nel testo in vigore prima della sostituzione ad opera dell’art. 2, comma 2-bis, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006 - nel prevedere la nullità del c.d. patto di quota lite si riferisce esclusivamente all’attività svolta da professionisti abilitati al patrocinio in sede giurisdizionale e non anche all’attività amministrativo-contabile svolta dal consulente del lavoro in ambito previdenziale e finalizzata al conseguimento di sgravi fiscali”.
Se ne dovrebbe ricavare che per l’attività stragiudiziale il patto di quota lite sia consentito.
Dobbiamo invero dedurre che trattasi della massima estensione derogatoria e non tragga in inganno, in senso più favorevole ad un’interpretazione estensiva, la recentissima pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite n. 25012 del 25 novembre 2014 che ha affermato la legittimità della sanzione disciplinare della sospensione dall’attività professionale - convertita in sede d’appello innanzi al Consiglio Nazionale Forense, nella censura - all’avvocato che pattuisce un accordo con il cliente, mediante il quale l’assistito si impegna a corrispondere un onorario pari al 30% dell’importo totale del risarcimento al termine della controversia. Secondo gli Ermellini, la proporzione e la ragionevolezza nella pattuizione del compenso professionale, sono “l’essenza comportamentale richiesta all’avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del compenso a lui spettante”, ammettendo la validità di un contratto fra il difensore ed il cliente avente ad oggetto una parte o una quota della res litigiosa (e, quindi, un compenso parametrato sul valore dell’affare).


Il divieto del patto, infatti, viene ravvisato nella ricorrenza di due circostanze: 1) nell’assenza dell’alea di rischio, essendo pacifico il risultato della controversia ed essendo dubbio soltanto il quantum (si trattava di un risarcimento danni a seguito di sinistro stradale dove risultava pacifico l’an trattandosi di un soggetto trasportato); 2) nella sproporzione della quota del 30% rispetto all’effettivo impegno prestato dal legale. Purtroppo, però, il caso deciso si riferisce a fattispecie verificatasi successivamente al decreto Bersani e antecedentemente alla legge n. 247/2012.
Conclusivamente, parrebbe potersi sostenere l’ammissibilità di un accordo in forma scritta, ovviamente, fra cliente ed avvocato, il cui compenso ben possa essere determinato in una quota percentuale rispetto al valore dell’affare, fermo restando che risulti proporzionato al valore e complessità della lite ed alla natura del servizio professionale con l’ulteriore e invalicabile limite che il contratto si riferisca ovviamente alla gestione di affari stragiudiziali.
Sono aperte scommesse sulla tenuta dell’impianto con particolare riferimento a nuovi innesti a cura di chi spetti, legislatore, magistratura o custodi della disciplina.
La pallina " della roulette", tanto per riprendere il sottotitolo, è sempre in movimento.

Avv. Patrizia Pisapia

Avv. Giovanni Cerri – Delegato di Cassa Forense

 

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