PUBBLICARE ONLINE IL FACSIMILE DELLA PROCURA È ACCAPARRAMENTO DI CLIENTELA

di Marco Martorana

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Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7501/2022, hanno chiarito la portata applicativa dell’art. 37 del Codice Deontologico Forense (CDF), precisando che la pubblicazione online sul sito web di una copia facsimile della procura alle liti al fine di invitare potenziali clienti interessati a ricorrere in giudizio nei confronti di una azienda determinata, integra l’illecito deontologico dell’accaparramento di clientela sanzionato dal Codice.

L’art. 37, comma 4, CDF prevede che

“è vietato offrire, sia direttamente che per interposta persona, le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico”

Sul punto si è più volte espresso anche il Consiglio Nazionale Forense, che tratta in modo piuttosto severo fattispecie potenzialmente riconducibili al menzionato illecito disciplinare, estendendo peraltro il concetto di “luoghi pubblici o aperti al pubblico” anche ai siti web e ai social media.

A tal proposito, con la sentenza n. 75 del 15 aprile 2021, il C.N.F. aveva ritenuto integrata la violazione disciplinare ex art. 37 CDF da parte dell’avvocato che offriva prestazioni professionali gratuite o a prezzi simbolici allo scopo di suggestionare il cliente sul piano emozionale, con un messaggio di natura meramente commerciale ed esclusivamente caratterizzato da evidenti sottolineature del dato economico. Nel caso di specie, infatti, il professionista aveva pubblicato nel proprio sito internet un annuncio nel quale decantava la propria attività ed evidenziava i prezzi bassi, precisi e chiari, nonché appuntamenti gratuiti e l’applicazione di tariffe esigue e la riscossione degli onorari a definizione delle pratiche.

Allo stesso modo, come previsto dalla sentenza del C.N.F. n. 38 del 25 febbraio 2020, “costituisce violazione del divieto di accaparramento di clientela, nonché lesione della dignità e del decoro della professione, il comportamento dell’avvocato che, senza esserne richiesto, offra una prestazione personalizzata, cioè rivolta a una persona determinata per uno specifico affare”

I fatti sui quali si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione, invece, prendono le mosse da una vicenda particolare, che però si lega concettualmente al filone giurisprudenziale del C.N.F., in linea con le pronunce poc’anzi menzionate.

Il caso di specie prende le mosse da un procedimento penale pendente per disastro ambientale a carico di una società determinata.

Ebbene, nelle more del giudizio, il legale della persona offesa aveva pubblicato sul sito internet di un comitato costituito ad hoc un modulo di adesione e un documento facsimile della procura alle liti, allo scopo di invitare eventuali interessati a aderire ad una class action nei confronti dell’azienda, compilando il conferimento d’incarico ed inviandolo al suo studio professionale, previo versamento di una modesta somma asseritamene imputata a spese vive.

Con un esposto del 9 ottobre 2015, l’azienda aveva quindi sollecitato l’intervento del C.O.A. di Trento lamentando la pubblicazione del facsimile della nomina dell’avvocato quale difensore della parte offesa nel procedimento per disastro ambientale presumibilmente causato dalla società.

Una volta ultimata l’attività istruttoria pre-procedimentale, con delibera del 6 novembre 2017 il Consiglio Distrettuale di Disciplina (C.D.D.) di Trento aveva disposto l’apertura del procedimento disciplinare nei confronti del professionista per violazione dell’art. 9 CDF sui doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza, dell’art. 37 CDF sul divieto di accaparramento di clientela (in particolare dei commi 4 e 5) e dell’art. 23 CDF sul conferimento dell’incarico.

Al termine del procedimento, il C.D.D. di Trento aveva sanzionato l’avvocato con l’avvertimento, ritenendolo “responsabile dell’addebito di cui al punto 2 del capo di incolpazione (violazione dell’art. 37, comma 4, CDF)”, prosciogliendolo dai restanti addebiti, rilevando come le testimonianze avessero confermato che “l’incolpato era a conoscenza del fatto che il proprio recapito professionale e i documenti (moduli di procura) a lui riferibili fossero reperibili sul sito internet del comitato e, inoltre, che l’incolpato assentì alla pubblicazione degli stessi sul sito”.

L’avvocato, successivamente, aveva impugnato la pronuncia dinanzi al Consiglio Nazionale Forense che, con sentenza n. 97 del 6 maggio 2021, aveva però rigettato il ricorso confermando l’orientamento del C.D.D. di Trento.

Una volta ricevuta la seconda pronuncia sfavorevole, il professionista aveva adito la Corte di Cassazione. In quell’occasione, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 7501/2022, hanno rigettato il ricorso confermando sia la pronuncia del C.D.D. di Trento, sia quella successiva del C.N.F., ritenendo il ricorrente colpevole della violazione dell’art. 37 CDF, in quanto la condotta da lui posta in essere sul sito web del comitato aveva integrato un accaparramento di clientela, peraltro già sanzionato dalla sentenza n. 93 del 4 ottobre 2019 del C.N.F., richiamata anche dalle Sezioni Unite.

In quest’ultima pronuncia, il Consiglio aveva ritenuto integrato l’illecito disciplinare dell’accaparramento di clientela nell’ipotesi in cui un professionista aveva contattato direttamente dei potenziali clienti offrendo la propria assistenza legale gratuita, allegando alla comunicazione stessa una procura alle liti da sottoscrivere ed inviare.

Nel caso deciso dalla Suprema Corte, la pubblicazione del facsimile della procura e il modulo di adesione, accompagnati dall’invito ad aderire alla class action, sono stati assimilati ad un’offerta non richiesta rivolta a potenziali interessati per uno specifico affare; con la differenza che, in questo frangente, il pubblico dei destinatari è estremamente ampio e non determinato, in quanto costituito dalla generalità dei visitatori del sito web.

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