PERMESSO DI SOGGIORNO PER MOTIVI UMANITARI E SERIA VOLONTÀ D'INTEGRAZIONE DEL RICHIEDENTE

di Emanuele Nagni

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Suprema Corte, la ‘seria intenzione d’integrazione sociale’ può rilevare ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari

Lo scorso 5 settembre è stata pubblicata l’ordinanza n. 26089/2022, con la quale la Prima Sezione della Suprema Corte, nel rigettare i primi quattro motivi di ricorso, ha accolto il quinto nei limiti di quanto precisato nel corredo motivazionale, cassando con rinvio al Giudice di secondo grado il provvedimento in oggetto di impugnazione.

Nei precedenti gradi di giudizio, infatti, la Corte d’Appello di Cagliari, confermando la decisione del Tribunale, ha rigettato le domande proposte da un cittadino sierraleonese di riconoscimento dello status di rifugiato ex artt. 7 e 8 D. Lgs. 19 novembre 2007, n. 251 (emesso in “attuazione della Direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”), oltreché di protezione “sussidiaria” ex artt. 14 e ss. del medesimo Decreto e di protezione “umanitaria”, di cui all’art. 5, co. 6 D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (“Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”).

Nonostante in sede di audizione il richiedente avesse riferito di aver preso parte, in qualità di presidente, ad un gruppo di opposizione politica in Sierra Leone e di aver svolto propaganda via radio insieme a due compagni successivamente arrestati e torturati a morte, con la decisione depositata nel 25 gennaio 2021, il Giudice di seconde cure aveva ritenuto insussistenti, in caso di rientro nel Paese d’origine, i paventati motivi persecutori di natura politica (c.d. ‘timor persecutionis’) ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.

Inoltre, la pronuncia impugnata aveva stabilito che, ai fini della protezione sussidiaria, da tale vicenda non potesse apprezzarsi nel richiedente alcun rischio effettivo di vedersi sottoposto nel proprio Paese a pena capitale o a trattamenti disumani o degradanti, né di poter subire un grave danno alla propria integrità personale a causa della violenza indiscriminata in ipotesi di conflitto armato interno o internazionale.

Nondimeno, la Corte d’Appello territoriale aveva ritenuto altresì carenti le condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in assenza di circostanze da cui potesse evincersi la compromissione di diritti umani in Sierra Leone e di elementi di integrazione linguistica o lavorativa che fossero indice del significativo inserimento socioculturale nel territorio italiano, oltre che della peculiare vulnerabilità a seguito dell’eventuale rimpatrio.

Tuttavia, con riferimento a tale ultimo profilo, il ricorrente ha lamentato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 5, co. 6 D. Lgs. n. 286/1998, in materia di permesso di soggiorno, e degli artt. 8 e 32, co. 3 D. Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, in tema di status di rifugiato, nonché l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, consistente nella radicata integrazione lavorativa derivante da reiterati contratti a tempo determinato e nella buona conoscenza della lingua italiana, ritenuta insussistente in ragione della mera richiesta di un interprete in giudizio, che ha oscurato i plurimi certificati scolastici prodotti e il continuativo svolgimento della vita lavorativa e delle relazioni sociali.

Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto come tali indici fattuali conducano il ricorrente alla condizione di vulnerabilità nell'alveo del diritto al rispetto della vita privata e familiare ex art. 8 CEDU, e come la Corte d’Appello abbia errato nel considerarli privi di concreto rilievo.

Pertanto, richiamando il recente orientamento giurisprudenziale avviato dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 24413 del 9 settembre 2021, gli Ermellini hanno rilevato come non possa prescindersi dal considerare “il peso specifico” assunto non solo dall’integrazione lavorativa, ma anche dalle attività formative del richiedente.

In altri termini, la Suprema Corte ha precisato che, anche in assenza di un contratto di lavoro a tempo indeterminato e in considerazione delle non irrilevanti difficoltà per il raggiungimento di tale obiettivo nel Paese ospitante, la

seria intenzione d'integrazione sociale, desumibile da una pluralità di attività” assume una portata dirimente ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria.


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