IL RAPPORTO TRA ACCERTAMENTO FISCALE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE E AVVISO DI ADDEBITO INPS
26/05/2025
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L’attività di riscossione relativa al recupero di somme asseritamente dovute all’INPS è effettuata direttamente dall’Istituto mediante la notifica di un avviso di addebito con valore di titolo esecutivo, il quale sostituisce la c.d. cartella di pagamento (art. 30, comma 1, del D.L. 31/5/2010 n. 78).
Occorre altresì tener presente che l’Amministrazione finanziaria è autorizzata e tenuta ad effettuare delle verifiche sulla correttezza delle dichiarazione dei redditi presentate dai cittadini. Una volta eseguiti i controlli e rilevate eventuali difformità, l’Agenzia delle Entrate trasmette al contribuente l’avviso di accertamento e all’INPS gli esiti di tali verifiche. In particolare, il presente contributo si occupa degli accertamenti fiscali relativi al superamento dei minali per i lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali (commercianti e artigiani) o alla gestione separata. Infatti, qualora risultasse un imponibile maggiore rispetto a quello dichiarato, l’Ente previdenziale provvede alla rideterminazione dei contributi dovuti emettendo, per l’appunto, il c.d. avviso di addebito.
In questi casi, il problema che si pone attiene al coordinamento tra gli esiti dell’accertamento fiscale e la riscossione previdenziale.
Una prima questione si collega a quanto previsto dall’art. 24 c. 3 del d.lsg. 46/1999 a mente del quale “se l’accertamento effettuato dall’ufficio è impugnato davanti all’autorità giudiziaria, l’iscrizione a ruolo è eseguita in presenza di provvedimento esecutivo del giudice”. Tale norma è stata interpretata dalla Suprema Corte, con la sentenza n. 8379/2014 , mai smentita, nei seguenti termini: l’accertamento a cui la norma si riferisce non è solo quello eseguito dall’INPS, ma anche quello operato da altro ufficio pubblico, come l’Agenzia delle Entrate; ai fini dell’iscrivibilità a ruolo non è necessario che l’INPS sia messo a conoscenza dell’impugnazione dell’accertamento davanti all’Agenzia delle Entrate o alle Commissioni Tributarie.
Ciò significa che l’INPS non può procedere con la notifica dell’avviso di addebito se il contribuente ha nel frattempo proposto impugnazione nelle sedi di revisione fiscale. Qualora ciò dovesse accadere, il contribuente potrebbe opporsi all’avviso di addebito contestando la non iscrivibilità a ruolo dell’asserito credito INPS per violazione dell’art. 24 c. 3 d.lsg. 46/1999.
Circa le conseguenze dell’accertata non iscrivibilità, gli orientamenti sono divisi. Secondo alcuni tribunali di merito (Trib. Udine sent. n. 171/2022, Trib. Modena sent. n. 4/2020), l’accoglimento dell’eccezione in parola rende processualmente superfluo l’esame di ulteriori questioni, dal momento che la pronuncia incide direttamente sulla validità stessa del titolo esecutivo, rendendolo inutilizzabile da parte dell’INPS. Secondo altri, invece, l’accertamento della violazione del summenzionato art. 24 non impedisce ai Giudici di entrare nel merito della pretesa contributiva e valutare la reale sussistenza del credito in base alle risultanze probatorie (Corte d’Appello di Venezia n. 295/2022 e n. 672/2017).
Un secondo problema attiene, invece, all’incidenza della definizione agevolata in ambito fiscale sulla pretesa contributiva dell’INPS. Per altri istituti deflattivi del contenzioso tributario, come la mediazione, l’Agenzia delle Entrate e il contribuente trovano un accordo sul maggior imponibile, accordo che incide necessariamente sia sul ricalcolo delle tasse, che dei contributi. La questione è diversa se il contribuente aderisce, invece, alla c.d. definizione agevolata (disciplinata da varie normative, da ultimo la L. n. 197/2022), in forza della quale il contenzioso tributario cessa con il pagamento di una percentuale dell’imposta accertata, quantificata a seconda del valore della controversia, del grado di giudizio pendente al momento della proposizione della domanda di definizione e dell’eventuale soccombenza dell’Agenzia. In questo caso, quindi, non sussiste alcun accordo sull’imponibile.
L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in materia (Cassazione sentenze nn. 21541 del 2019 e 23301 del 2019, e n. 950 del 2021 e ordinanza n. 14194/2021) afferma che, in questi casi, il Giudice del Lavoro, chiamato a decidere sulla legittimità dell’avviso di addebito originato dall’accertamento di natura fiscale, in caso di adesione dell’opponente alla definizione agevolata dovrebbe entrare nel merito della vicenda, analizzando gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione. Questo perché, secondo la Cassazione, la natura prettamente deflattiva dell’istituto impedisce un’estensione “degli effetti della definizione concordata sulla rideterminazione totale o parziale del presupposto impositivo accertato dall’Agenzia ai fini extrafiscali, quali i contributi previdenziali calcolati a percentuale sul reddito” (sent. cit.).
A parere di chi scrive, sembra irragionevole demandare l’esame incidentale dell’avviso di accertamento ad un giudice non funzionalmente preposto a tale compito. Infatti, la materia fiscale è devoluta per intero alla competenza e alla cognizione delle Commissioni Tributarie. Seguendo l’orientamento appena citato, i Giudici del lavoro dovrebbero decidere della questione di merito fiscale, finendo per appiattirsi alle risultanze delle indagini dell’Agenzia delle Entrate e negando, nella sostanza, il diritto di difesa del contribuente. Alla luce dello stretto legame che sussiste tra accertamento fiscale e pretesa contributiva, la soluzione più ragionevole potrebbe essere rideterminare l’avviso di addebito in base a quanto effettivamente pagato dal contribuente in sede fiscale per effetto della definizione agevolata. In sostanza, se è stato pagato il 20% all’Agenzia delle Entrate, la stessa percentuale dovrebbe essere pagata all’INPS, soluzione per un periodo seguita anche dalla Corte d’Appello di Venezia con sentenza n. 385/2016.