IL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

di Marco Pizzutelli

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Il Blocco dei Licenziamenti e la Disciplina del Licenziamento per Giustificato Motivo Oggettivo

Il venir meno del cosiddetto “blocco dei licenziamenti”, disposto in conseguenza dell'emergenza sanitaria e protrattosi per alcuni settori (tra cui quelli del tessile e del  turismo) fino al 31 dicembre 2021, rende opportuno riesaminare sinteticamente la disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Definizione e Requisiti del Giustificato Motivo Oggettivo per il Licenziamento

L’art. 3 della L. 604/1966 stabilisce che il giustificato motivo oggettivo del licenziamento consiste in ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Ai sensi dell’art. 5 L. 604/1966 l’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo oggettivo, che deve essere specificato nella stessa comunicazione di licenziamento, è posto a carico del datore di lavoro (come del resto l'onere probatorio in ordine ai presupposti delle altre ipotesi di licenziamento, come il licenziamento disciplinare o quello collettivo).

Affinché sia configurabile un licenziamento per giustificato motivo oggettivo è necessario secondo il diritto vivente che ricorrano contemporaneamente molteplici requisiti, quali:

una riorganizzazione aziendale effettiva e concreta che determini la soppressione di uno o più specifici posti di lavoro (come la chiusura di un ufficio o di un reparto o la stessa cessazione dell'attività di impresa);

il nesso di causalità tra l’esigenza aziendale che determina la soppressione dello specifico posto di lavoro e il licenziamento di quel certo lavoratore;

l’impossibilità di ricollocare il lavoratore adibendolo a mansioni equivalenti o, in subordine, di livello inferiore, cioè di attuare il c.d. repêchage (requisito questo di elaborazione giurisprudenziale).

Riorganizzazione Aziendale e Causalità nel Licenziamento per Giustificato Motivo Oggettivo

Inoltre il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può anche fondare sull'esigenza aziendale di contrazione dei costi del personale, mediante la riduzione del numero dei dipendenti addetti ad una o più funzioni aziendali, allorquando non vengano raggiunte le soglie dimensionali previste per i licenziamenti collettivi (cui secondo la L. 223/1991 può procedere l'imprenditore che occupi più di 15 dipendenti e che intenda licenziare 5 o più dipendenti nell'arco di 120 giorni, per riduzione o  trasformazione di attività o di lavoro  o per cessazione dell’attività).

Il licenziamento è dunque ammesso solo quando non esistano ragionevoli alternative, costituisce cioè una extrema ratio, il cui utilizzo deve essere adeguatamente giustificato dal datore di lavoro, onerato della prova degli elementi costitutivi; a presidio di tale obbligo a carico del datore di lavoro ed a tutela del lavoratore viene previsto un articolato sistema sanzionatorio, che è stato oggetto delle riforme più rilevanti degli ultimi anni e su cui ci si soffermerà più avanti.

E' assimilabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche quello per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica alla mansione in capo al lavoratore, con la conseguenza che anche in tale ipotesi il datore di lavoro deve provare l'impossibilità di repêchage del lavoratore che abbia residua capacità lavorativa all’interno della compagine aziendale (Cass. 19/3/2018, n. 6798).

Sovente viene assimilato al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche quello per superamento del periodo di comporto. Il periodo di comporto è l'arco temporale durante il quale il dipendente, assente per malattia o infortunio, ha il diritto alla conservazione del posto di lavoro: una volta superato tale periodo il datore di  lavoro può recedere dal rapporto (art. 2110, comma 2 c.c.).

Tuttavia si tratta di un’ipotesi di licenziamento distinta da quella del licenziamento per motivo oggettivo in quanto se vi è il superamento del periodo di comporto il datore di lavoro può procedere senz'altro al licenziamento, senza dover provare – come invece dovrebbe fare se si trattasse di un'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo - l'incompatibilità fra le prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell’impresa, o l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa,  o ancora l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (Cass. 20/05/2013, n. 12233).         

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo come mera difesa dell'impresa contro contingenze economiche negative o anche strumento di massimizzazione del profitto?

 In ordine all'individuazione delle ragioni economiche giustificative del ricorso al licenziamento ed all'ampiezza del sindacato del Giudice del Lavoro, si è acceso un animato dibattito, non ancora del tutto risolto, del cui stato attuale preme sinteticamente dar conto.

 Posto che le ragioni economiche giustificative il licenziamento possono consistere tanto in una riorganizzazione aziendale quanto nella mera riduzione dei costi dell’attività mediante taglio del personale, un orientamento giurisprudenziale esclude la possibilità di licenziare se tale scelta non sia necessitata da situazioni sfavorevoli che affliggono l’azienda (Cass. 07/07/2004, n. 12514; Cass. 02/10/2006, n. 21282; Cass. 25/03/2011, n. 7006; Cass. 26/09/2011, n. 19616; Cass. 24/02/2012, n. 2874; Cass. 23/10/2013, n. 24037; Cass. 16/03/2015, n. 5173; Cass. 24/06/2015, n. 13116).

Si sostiene che la libertà di iniziativa economica privata sancita dall’art. 41 Cost. debba essere bilanciata con il diritto del lavoratore subordinato alla stabilità del rapporto di lavoro, sicché la sola massimizzazione del profitto aziendale non sarebbe sufficiente a fondare il licenziamento ed una situazione economica aziendale positiva costituirebbe indice dell’insussistenza del giustificato motivo oggettivo.

 Altro orientamento giurisprudenziale, valorizzando l’art. 41 Cost., afferma invece la possibilità di attuare riorganizzazioni o ristrutturazioni dell’impresa quali che ne siano le motivazioni, riconoscendo così autonoma rilevanza alle ragioni organizzative anche a prescindere dalle ragioni squisitamente economiche.

Si osserva che l'imprenditore ha un naturale interesse ad ottimizzare l’efficienza dell’apparato produttivo nell’ottica della generazione di un maggior profitto e del miglioramento della competitività dell'impresa sul mercato. Ragionando diversamente si affermerebbe l’immodificabilità dell’organizzazione aziendale per ragioni diverse dall’andamento negativo, con un’eccessiva compressione della libertà di iniziativa economica privata che non trova fondamento del dettato costituzionale; inoltre la limitazione della libertà datoriale di combinare i fattori produttivi per migliorare la redditività della produzione è incompatibile con un’economia di mercato (Cass. 10/05/2007, n. 10672; Cass. 24/05/2007, n. 12094; Cass. 11/04/2003, n. 5777; Cass. 18/11/2015, n. 23620; Cass. 01/07/2016, n. 13516; Cass. 21/07/2016, n. 15082; Cass. 07/12/2016, n. 25201; Cass. 18/07/2019, n. 19302; Cass. 17/11/2021, n. 34976).

Quest'ultimo indirizzo risulta ad oggi prevalente: non può dunque ritenersi che la sofferenza economica dell'azienda costituisca presupposto di legittimità del licenziamento per  giustificato motivo oggettivo.

Il Sindacato del Giudice del Lavoro e la Distinzione tra Ragioni Organizzative e Scelte Imprenditoriali

Altra questione dibattuta è la distinzione tra le ragioni organizzative e le scelte imprenditoriali, in relazione all'estensione del sindacato del Giudice del lavoro adìto per impugnazione del licenziamento.

Se le ragioni economiche sono più semplici da accertare, l’accertamento delle ragioni organizzative richiede l’impiego di parametri tecnici ed organizzativi. Sotto questo profilo il rischio è di sindacare giudizialmente non solo l’esigenza organizzativa di effettiva soppressione del posto di lavoro, ma anche la scelta che vi ha dato luogo, cioè la scelta imprenditoriale; nella direzione opposta, invece, nel caso in cui ci si concentri esclusivamente sul dato della mera soppressione del posto di lavoro, si rischia di legittimare licenziamenti ad libitum, del tutto discrezionali, non derivanti cioè da una verificabile ragione organizzativa.

In primo luogo va chiarito che le ragioni organizzative si pongono alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e sono suscettibili di un sindacato pieno da parte del Giudice; al contrario le scelte imprenditoriali, in quanto espressione della libertà d'impresa tutelata dall’art. 41 Cost., sono insindacabili.

La limitazione del sindacato giurisdizionale sulle scelte imprenditoriali era già stata riconosciuta dalla giurisprudenza ed è stata poi espressamente sancita dall’art. 30 comma 1 L. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro); quest'ultima disposizione è stata quindi modificata dall’art. 1 comma 43 L. 92/2012 (c.d. Legge Fornero) che ha precisato che lo sconfinamento del sindacato del Giudice sulla scelta imprenditoriale costituisce una violazione di norme di diritto, denunciabile anche con ricorso per cassazione ex art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c..

Dunque il rischio di sindacare non solo la ragione organizzativa, ma anche la scelta imprenditoriale a monte della stessa, è concreto ed è tale da aver indotto il Legislatore ad intervenire sulla questione.

Il Giudice del lavoro deve comunque procedere al rigoroso vaglio di effettività della ragione organizzativa addotta dal datore di lavoro, allo scopo di scongiurare licenziamenti discrezionali “mascherati”. Il Giudice dovrà pertanto verificare in concreto la riduzione dei costi o l’aumento della produttività o la migliore capacità decisionale derivante dalla soppressione del rapporto di lavoro o dalla riduzione del personale (per tutte Cass. 20/07/2020, n. 15400).

L’obbligo di repêchage.

La natura di extrema ratio del licenziamento impone al datore di lavoro un onere probatorio ulteriore  rispetto all’effettività della ragione economico-organizzativa e al nesso causale, costituito dall’impossibilità di ricollocare il lavoratore all’interno dell’organizzazione aziendale.

 Il lavoratore il cui posto sia stato soppresso deve tendenzialmente essere adibito a mansioni equivalenti, cioè diverse ma rientranti all’interno dell’inquadramento contrattuale a lui spettante.

Tuttavia, nel caso in cui nell'organizzazione aziendale non sussistessero o non fossero disponibili mansioni equivalenti, il lavoratore potrà essere destinato anche a mansioni inferiori al suo livello di inquadramento, coerentemente con la preferibilità di un demansionamento rispetto al licenziamento (c.d. demansionamento conservativo), ai sensi dell'art. 2103 c.c., come novellato dal D. Lgs. 81/2015 (nell'ambito della riforma c.d. Jobs act). In caso di demansionamento conservativo vengono comunque garantiti al lavoratore tanto il mantenimento dell'originario inquadramento, quanto la retribuzione a quest'ultimo correlata.

Qualora l’esigenza organizzativa conduca al semplice taglio del personale, senza alcuna riorganizzazione aziendale, la prova del repêchage non deve essere fornita. In tal caso, infatti, non vi è la soppressione dello specifico posto di lavoro inteso, bensì una riduzione numerica dei lavoratori che svolgono la medesima funzione al fine di riduzione dei costi fissi aziendali; di conseguenza è impossibile pretendere la prova dell’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni perché l’assenza di riorganizzazione preclude la creazione di “spazi” nell’organigramma in cui inserire il lavoratore in esubero.

Ciò non toglie che, in siffatte ipotesi, il datore di lavoro debba comunque giustificare in concreto, in applicazione della regola di buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., la scelta del lavoratore da licenziare tra quelli occupati in posizioni di piena fungibilità: secondo il diritto vivente la scelta deve avvenire in conformità ai criteri previsti per l’individuazione dei lavoratori nei licenziamenti collettivi dall’art. 5 L. 223/1991, e dunque ai criteri individuati dalla contrattazione collettiva, in assenza dei quali si deve far riferimento ai carichi di famiglia ed all’anzianità di servizio (per tutte Cass. 06/12/2018, n. 31652).

 

Procedimento di Licenziamento per Giustificato Motivo Oggettivo

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere intimato sempre in forma scritta e con il rispetto del preavviso (salva dispensa dallo stesso con corresponsione dell'indennità sostitutiva) e deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato.

Per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del D. Lgs. 23/2015, c.d. Jobs Act) e dipendenti da imprese che superano il requisito dimensionale ex art. 18 L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), è necessario attivare il procedimento di conciliazione di cui all’art. 7 della L. 604/1966 davanti alla commissione di conciliazione presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro.

In siffatta ipotesi il licenziamento deve essere preceduto da una comunicazione all’Ispettorato e al lavoratore in cui il datore dichiara la volontà di procedere al licenziamento ed i motivi che vi hanno dato luogo; l’Ispettorato nel termine perentorio di 7 giorni convoca le parti per la conciliazione, che si conclude entro 20 giorni dalla ricezione della comunicazione.

 Se la conciliazione fallisce o se entro 7 giorni l’Ispettorato non convoca le parti, il datore di lavoro può procedere al licenziamento. La convocazione si considera validamente effettuata se recapitata al domicilio del lavoratore indicato nel contratto o comunque se il lavoratore ne sottoscrive una copia per ricevuta.

In tutte le altre ipotesi la previa procedura di conciliazione non è necessaria, ma il datore di lavoro può parimenti offrire entro 60 giorni dal licenziamento, ai sensi dell’art. 6, del D.Lgs. 23/2015, in sede sindacale o presso una commissione di certificazione, la liquidazione di un importo pari a una mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio compreso fra 3 e 27 mensilità, o tra 1,5 e 6 per le imprese sotto soglia dimensionale.

 

Forme di tutela in caso di licenziamento illegittimo

Per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 (data in cui è entrato in vigore il D. Lgs. 23/2015), il cui licenziamento sia stato dichiarato illegittimo, sono possibili a seconda dei casi la tutela reale e quella obbligatoria.

 Per quanto riguarda le imprese che raggiungono la soglia dimensionale dell’art. 18 L. 300/1970 (almeno 15 dipendenti in un Comune o almeno 60 dipendenti in tutta Italia), vi sono infatti alcune ipotesi in cui è prevista una tutela reintegratoria a favore del lavoratore (art. 18 co. 7):

  • quando il fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia manifestamente insussistente;
  • quando non sussiste l’inidoneità fisica o psichica del lavoratore che aveva determinato il licenziamento;
  • quando il licenziamento è stato comminato in pendenza del periodo di comporto.

Il Giudice, dopo aver dichiarato illegittimo il licenziamento ed aver condannato il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, lo condanna anche a corrispondere un indennizzo commisurato all’ultima retribuzione globale di fatto maturata al momento del licenziamento, con il limite di 12 mensilità.

Nelle altre ipotesi, il lavoratore ha diritto esclusivamente ad un’indennità compresa tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto maturata, tenendo conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti, della dimensione dell’attività economica e del comportamento e condizioni delle parti; in tal caso il Giudice pronuncia lo scioglimento del rapporto di lavoro.

In caso, infine, di violazione di regole procedurali o di carenze motivazionali, il lavoratore ha diritto ad una tutela obbligatoria attenuata, poiché l’indennità può variare solo tra 6 e 12 mensilità della retribuzione globale di fatto; l’esatto ammontare viene stabilito in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro.

Per i lavoratori dipendenti da impresa che non raggiunge i requisiti dimensionali dell’art. 18 L. 300/1970, il Giudice condanna il dat0re di lavoro in caso di licenziamento per giustificato motivo illegittimo, a prescindere dal vizio, ad un’obbligazione alternativa: la riassunzione del lavoratore o la corresponsione di un’indennità risarcitoria, la cui misura viene determinata tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità, tenendo conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore, nonché del comportamento e della condizione delle parti.

L’indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore a dieci anni, e fino a 14 mensilità se con anzianità superiore a 20 anni.

I lavoratori assunti dal 7 marzo 2015  sono invece assoggettati al contratto di lavoro a tempo indeterminato c.d. a tutele crescenti, previsto dalla L. 183/2014  e dal D.Lgs. 23/2015 (c.d. Jobs Act).

Nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo comminato da imprese che superino la soglia dimensionale, il lavoratore ha diritto ad una tutela indennitaria commisurata tra le 6 e le 36 mensilità o da 2 a 12 in caso di carenza motivazionale o violazione procedimentale.

Nell'impianto legislativo la misura dell’indennità andava calcolata sulla base della sola anzianità di servizio; tuttavia la Corte Costituzionale con la sentenza n. 194 del 14/11/2018 ha dichiarato illegittimo il rigido meccanismo fondato sull’anzianità ed ha rimesso al prudente apprezzamento del Giudice la determinazione della misura dell’indennità. A questo fine il Giudice farà riferimento anche al numero di dipendenti occupati, alle dimensioni aziendali, al comportamento e alle condizioni delle parti.

Qualora l’impresa non superi il requisito dimensionale, l’indennizzo dovuto per un licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo sarà compreso fra 3 e 6 mensilità o da 1 a 6 in caso di carenza motivazionale, con meccanismo di calcolo ancorato all’anzianità di servizio.


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