I giorni dell'IRA...P

di Francesco Mancini

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Una recentissima sentenza della Sezione V della Corte di Cassazione – la n. 21806, del 29 agosto 2019 – irrompe sul già  tribolato mondo della imponibilità IRAP dei redditi di lavoro autonomo.

Mentre il legislatore preannuncia o realizza, periodicamente, interventi contenitivi sull'ambito di applicazione o sulla stessa sopravvivenza di un’imposta “storicamente” controversa e contestata (tanto da essere più volte indubbiata di incostituzionalità), la giurisprudenza di legittimità, negli ultimi tempi, ha stretto le maglie interpretative sulle fattispecie di non applicabilità del tributo.

Come è noto, l’Imposta Regionale sulle Attività Produttive, istituita con il D.lgs. n. 446/1997, ha per presupposto l’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata, diretta alla produzione ed allo scambio di beni o alla prestazione di servizi.

La Consulta, con la sentenza n. 156 del 21 maggio 2001, circoscrisse l’imponibilità IRAP dell’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, escludendo la presenza dei presupposti per l’applicazione dell’imposta allorquando venga accertata l’assenza di elementi di organizzazione.

Tale accertamento compete al giudice di merito che, secondo i prevalenti indirizzi della giurisprudenza di legittimità (inter alia, Cass. Sez. Un. n. 9451, del 10 maggio 2016), può identificare la sussistenza di un’autonoma organizzazione quando il professionista: 

  •  sia responsabile, sotto qualunque forma, dell’organizzazione, e non sia, quindi, stabilmente inserito in strutture organizzative riconducibili a responsabilità ed interessi altrui;
  •  impieghi beni strumentali eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio della professione;
  • faccia ricorso, in maniera non occasionale, al lavoro di altri, tranne che non si tratti di un solo dipendente o collaboratore che svolga attività generiche o puramente esecutive, quali quelle di segreteria (Cass. n. 17429, del 30 agosto 2016).

Intervenendo sulle diaspore ermeneutiche insorte sul tema, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, con sentenza n. 7371, del 14 aprile 2016, dando seguito all'orientamento “inaugurato con la S.U. 12 maggio 2009, n. 12108”, ha stabilito che, per gli studi associati e le associazioni professionali, il presupposto dell’organizzazione non ha bisogno di ulteriori riscontri probatori, nel senso che deve ritenersi integrato indipendentemente dalla struttura organizzativa della quale si avvalgono: una posizione alla quale si è data natura di interpretazione autentica, con l’effetto che gli Uffici si sono premurati di emettere accertamenti in rettifica, a carico degli studi associati che non avevano versato l’IRAP, anche per le annualità antecedenti alle statuizioni delle Sezioni Unite del 2016.

La sentenza ha destato immediato scalpore, tanto è vero che, in un qualificato studio redatto per la Fondazione Nazionale dei Commercialisti, si rilevava che “suscita perplessità l’applicazione dell’IRAP ogni qual volta due (o tre) professionisti (in genere giovani) mettono in comune le loro speranze e si danno una mano reciprocamente…Parrebbe più equa una soluzione che consentisse di valutare caso per caso la natura e la portata del coordinamento fra gli “associati”. E che eviti il pericolo di una ulteriore spinta verso un’irrazionale polverizzazione delle attività professionali, scoraggiando le forme associative”. 

L’inatteso (e discusso) pronunciamento dei Supremi Giudici - sull'automatismo tra forma giuridica di svolgimento dell’attività professionale e presenza di “organizzazione” - ha determinato una emorragia di studi associati dal panorama forense, segnando un regresso delle sinergie professionali proprio mentre, per altro versante, spiccavano il volo le Società di Avvocati.

Ora, questa recentissima sentenza della Cassazione (n. 21806, del 29 agosto 2019) va oltre, e scrive una pagina preoccupante per il ricambio generazionale negli studi legali: afferma che, quando la prestazione è prestata in strutture organizzative altrui, anche di un familiare, il requisito dell’autonoma organizzazione ai fini IRAP può essere ravvisato, oltre che in capo al dominus, anche nei confronti del legale (nell'ipotesi, il figlio, il fratello, la moglie) che si avvalga della struttura del responsabile dell’organizzazione e della collaborazione di altri professionisti della struttura, “stante il presumibile intento di giovarsi delle reciproche competenze, ovvero della sostituibilità nell'espletamento di alcune incombenze, sì da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio (cfr. Cass. Ordinanza n. 1136 del 18.1.2017; Sentenza n. 3792 del 15.2.2018”.

Va precisato che la sentenza in commento ha cassato con rinvio al giudice di merito, dovendo questi verificare se l’apporto dell’attività professionale del dominus (nella fattispecie, il padre) e degli altri professionisti dello studio paterno, al quale si è rivolto il contribuente, abbia avuto o meno rilevanza sul reddito di quest’ultimo.

La partita è, dunque, ancora aperta, nel senso che, a differenza che per gli studi associati, il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte va poi calibrato sulle specificità del caso concreto.

Resta comunque il problema di una prova difficile (se non diabolica) della completa indipendenza del singolo professionista che, sebbene non incardinato in una formula associativa, possa essere considerato (anche remotamente?) fruitore della struttura organizzativa del dominus familiare, essendo scivolosa la dimostrazione che, pur esercitando, magari, in un ramo completamente diverso, non scambi competenze ed esperienze o non proceda ad episodiche sostituzioni in udienza.

Avv. Francesco Mancini – Foro di Campobasso

    

 


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