EASY RIDER?

di Livio Galla

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I riders, preziosi latori delle nostre forzate cene casalinghe, sono tornati alla ribalta dopo la maxi indagine condotta e coordinata dalla Procura milanese, annunciata con enfatica eco mediatica anche per le ingenti sanzioni comminate alle società inquisite. Proviamo a capire chi sono i riders e cosa agita il mondo delle consegne a due ruote.

Chi disponga di bicicletta e smartphone può rivolgersi alla società di gestione della piattaforma digitale di turno, che lo doterà -dietro versamento di una cauzione di 50 euro- di casco, T shirt, giubbotto, luci, piastra di aggancio e box per trasportare il cibo.

Dopo la firma di un contratto (e poi vedremo quale) il fattorino dichiarerà una fascia oraria di reperibilità, riceverà l’assegnazione di un turno operativo tramite una app e, attivata la geolocalizzazione sul proprio telefono, riceverà quindi l’indirizzo del ristorante ove prelevare la cena e quello di destinazione ove consegnarla (entro mezz’ora, onde evitare penali).

Il rider sarà poi soggetto a un ranking in base alle performance, che detto in italiano significa che il fattorino verrà giudicato da un sistema informatico che gli assegnerà un punteggio in base a: puntualità nella consegna, rapidità, eventuali rifiuti, fasce orarie prescelte. Insomma: meglio si lavora, più si lavorerà.

Fino a qui tutto chiaro: è il progresso che crea occupazione.

Ma il contratto di lavoro?

Per la normativa italiana i ciclofattorini possono essere:

1) prestatori autonomi occasionali ex art. 2222 cod. civ;

2) prestatori coordinati e continuativi disciplinati dall’art. 2 D. Lgs. 81/2015 e successive modifiche con molte garanzie dei lavoratori dipendenti e divieto di retribuzione a cottimo e

3) subordinati, ossia con le garanzie piene di legge e della contrattazione collettiva.

La Procura di Milano ha esaminato la posizione di sessantamila riders, li ha trovati inquadrati per la maggior parte come autonomi occasionali (primo tipo) e ha ritenuto che la realtà dei fatti smentisse questo inquadramento.

Ha quindi riqualificato quei rapporti come prestazioni coordinate del secondo tipo, ricalcolando retribuzioni, contributi e orpelli vari a carico delle società che gestiscono le piattaforme informatiche, ritenute pertanto datrici di lavoro inadempienti, con obbligo di uniformarsi entro 90 giorni e con ammende, in caso contrario, di 733 milioni di euro. Euro più, euro meno.

Sebbene -come spesso accade- la stampa abbia trattato l’iniziativa giudiziaria milanese già come una sentenza di condanna definitiva, fioccheranno ovviamente i ricorsi e saranno i giudici del lavoro (e non la Procura) a decidere se la riqualificazione sia stata corretta o meno, in un quadro giurisprudenziale finora non univoco, dove fattispecie lavorative innovative vanno necessariamente inquadrate nelle rigide e obsolete categorie tradizionali.

A ciò si aggiunga che il diritto del lavoro italiano guarda ancora con sospetto i datori di lavoro, non ascolta quasi mai la volontà negoziale dei lavoratori e tende a considerare la subordinazione come una sanzione, una sorta di enorme buco nero che inghiotte tutte le collaborazioni della galassia lavoristica che osino essere minimamente eterodirette, coordinate e continuative. Ossia organizzate.

Avv.Livio Galla – Foro di Vicenza

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