COVID-19: AUTOCERTIFICAZIONI E REATI DI FALSO
01/06/2021
Stampa la paginaIn materia di autocertificazioni connesse all’emergenza da Covid-19, si evidenzia il contributo arrecato dal c.d. ‘diritto vivente’, prodotto dell’interpretazione giurisprudenziale della normativa, come nel caso della pronuncia emessa lo scorso 12 marzo dal Tribunale di Milano, Sezione Gip e Gup, che ha prosciolto l’imputato
“perché il fatto non sussiste” dal delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico di cui all’art. 483 c.p.
Nel caso di specie, tale ipotesi di reato veniva contestata in relazione all’art. 76 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, incriminando così
“chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso”.
Il prevenuto, infatti, fermato durante un controllo dei passeggeri in transito nella Stazione di Milano Cadorna, aveva attestato nella dichiarazione sostitutiva di certificazione (meglio nota come ‘autocertificazione’) false informazioni in relazione al proprio lavoro e al rientro presso il proprio domicilio.
Tuttavia, la sentenza ha stabilito che l’art. 483 c.p. incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale
“fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”,
essendo pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza della Suprema Corte che le false dichiarazioni del privato integrano tale delitto quando sono destinate a provare la verità dei fatti cui si riferiscono per essere poi trasfuse in un atto pubblico.
Expressis verbis, il falso si configurerebbe solo
“quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale”.
Inoltre, la pronuncia ha disposto che, in caso di autocertificazione infedele emessa dal privato nell’atto di un controllo casuale in ragione delle previsioni emergenziali,
“appare difficile stabilire quale sia l’atto del pubblico ufficiale nel quale la dichiarazione infedele sia destinata a confluire”, in quanto il successivo controllo in relazione alla veridicità delle dichiarazioni sarebbe solo “eventuale e non necessario da parte della pubblica amministrazione”.
Infine, il Tribunale di Milano ha sottolineato come, in capo al privato sottoposto al controllo in tali circostanze, non sussista in alcun modo l’obbligo giuridico di ‘dire la verità’ sui fatti dichiarati nell’autocertificazione sottoscritta, in assenza di una norma di legge ad hoc. Anzi,
“una sua ipotetica configurazione si porrebbe in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo (art. 24 Cost.) e con il principio nemo tenetur se detegere, in quanto il privato, scegliendo legittimamente di mentire per non incorrere in sanzioni penali o amministrative, verrebbe comunque assoggettato a sanzione penale per le false dichiarazioni rese”.
In modo analogo, nella sentenza n. 54 del 2021, conclude anche la Sezione Gip e Gup del Tribunale di Reggio Emilia, che ha rilevato l’insussistenza di tale reato a seguito della trasgressione di un DPCM che istituisca l’obbligo di permanenza domiciliare.
Invero, sulla scorta delle pronunce della Corte costituzionale, ciò costituisce un’evidente restrizione della libertà personale, che può essere disposta solo dall’Autorità giudiziaria,
“posto che l’articolo 13 della Costituzione postula una doppia riserva, di legge e di giurisdizione, implicando necessariamente un provvedimento individuale, diretto dunque nei confronti di uno specifico soggetto”.
In conclusione, ha precisato il Tribunale, il DPCM, in quanto atto amministrativo, non è passibile di dichiarazione di illegittimità costituzionale da parte della Consulta, essendo sufficiente la disapplicazione delle disposizioni in esso contenute, caso per caso, dalla magistratura ordinaria.
Avv. Emanuele Nagni del Foro di Roma