Luoghi comuni duri a morire

di Roberto Uzzau

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Il che significa che il tema della previdenza (oggi più che mai attuale) sta finalmente assumendo un ruolo che in passato, un poco per l'inerzia degli interessati, un poco per assenza di adeguati stimoli, non ha avuto adeguata collocazione.
Capita ancora, però, di sentirsi rivolgere domande dettate da ingiustificato sconforto e da convinzioni frutto di luoghi comuni duri a morire. Due fra le tante:
1. la Cassa pretende somme elevatissime e poi restituisce pensioni misere;
2. la Cassa non ci dà la pensione prima del compimento di settanta anni: ma chi ci arriva a settanta anni?
Bene, siccome c'è una risposta a tutti i quesiti (anche a quelli maliziosi o sorretti da sterile intento polemico), anche le domande appena sopra elencate trovano serena risposta.
E, si badi, l'aggettivo femminile “serena” non ha funzione decorativa, perché in un contesto caratterizzato da una ideologica aggressività verso le casse professionali, che non ha precedenti quanto ad intensità, agli iscritti debbono essere forniti i dati e gli elementi necessari per effettuare le proprie valutazioni all'esito delle quali, si è certi, se non sereni potranno essere, al più, poco nuvolosi.
Ed allora.


1. Davvero si può sostenere che la Cassa pretende somme elevatissime e poi restituisce pensioni misere? No, non si può!
Poiché nessuno può seriamente credere che per avere una pensione non sia necessario pagare alcuna somma, va rammentato che Cassa Forense ha fissato la contribuzione previdenziale nella misura del 13% del reddito professionale netto, e non sull'intero reddito ma entro un tetto che per il corrente anno è pari ad € 91.550,00.
Il 13%, ossia meno della metà di quanto coloro che non abbiano ancora inteso iscriversi alla Cassa sono chiamati a versare alla Gestione separata INPS, che pretende oggi poco meno del 28% che, secondo i piani ministeriali, dovrà gradualmente essere elevato a non meno del 30%.
Proprio perché un'aliquota contributiva non elevatissima (per di più applicata non all'intero reddito ma entro un tetto prefissato) non può consentire erogazioni particolarmente significative, la recente riforma ha introdotto la cd “quota modulare”, che permette agli iscritti di incrementare i propri versamenti di ulteriori 10 punti percentuali comprensivi di un punto comunque obbligatorio. Ma anche sommando l'aliquota del contributo soggettivo di base con il massimo consentito per la contribuzione “modulare” si arriva ad un totale ancora ben lontano dalla media delle aliquote fissate nel settore pubblico.
Per il che non è affatto vero che Cassa Forense sia inqualificabilmente esosa, come ancora troppi sostengono.
Quel che disturba noi Avvocati, purtroppo, è il fatto che il cliente, nostro datore di lavoro, non versa all'Ente il maggior importo dei contributi, come accade nel privato: chiunque di noi abbia personale dipendente può facilmente verificare quanto sia l'ammontare lordo dello stipendio che paghiamo e quanto sia il “netto in busta” dopo le trattenute fiscali e previdenziali che versiamo quali sostituti.


E quindi, mentre il dipendente i propri contributi li versa nostro tramite mese per mese, noi dobbiamo pagare in quattro rate i contributi soggettivi minimi ed in sole due rate le eccedenze in autoliquidazione, ossia la differenza fra quanto complessivamente dovuto alla Cassa e quanto versato in anticipo con il pagamento dei minimi.
Non solo, ma alcuni di noi mal sopportano anche di dover versare alla Cassa il contributo integrativo, ripetibile dal cliente e pertanto esposto in fattura, perché il relativo ammontare viene incassato insieme alla parcella ed incrementa temporaneamente il nostro conto corrente: il dolore di doverlo vedere andare via ci fa dimenticare che non si tratta di soldi nostri, ma di denari in transito dalle tasche del cliente verso la Cassa che tale denaro destina in massima parte alle prestazioni assistenziali.
2. Davvero si può sostenere che oggi l'età pensionabile sia irraggiungibile? No, non si può!
Basti pensare a cosa accadeva prima del 2010: è vero che l'Avvocato conseguiva il diritto alla pensione al 65° anno di età e con almeno 30 anni di contributi validamente versati, ma è altrettanto vero che, restando iscritto all'Albo e continuando ad esercitare la professione, permaneva per cinque anni in capo al medesimo l'obbligo di versamento dei contributi in misura invariata, con il conseguente ed ovvio diritto ad un supplemento di pensione erogato in due fasi: dopo i primi due anni dal pensionamento e dopo il successivo triennio.
In seguito, nessuna imposizione contributiva di tipo soggettivo ma solo un contributo di solidarietà destinato, per l'appunto, alle prestazioni assistenziali.
Cosa è cambiato oggi? Nulla: si va in pensione a 70 anni con almeno 35 anni di contributi validamente versati, come di fatto accadeva in precedenza.
D'altronde (senza scomodare le rilevazioni statistiche che accreditano al ceto forense una vita media maggiore del resto della popolazione), basta guardarsi intorno per verificare quanti colleghi appendono la toga al chiodo una volta pensionati: il che non può non indurre a previsioni meno pessimistiche.

Roberto Uzzau - Delegato di Cassa Forense

 


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