Società tra avvocati: le Sezioni Unite fanno chiarezza sulla composizione dei partecipanti.

di Valerio Bonolo

Stampa la pagina
foto

In precedenza, l’unico modello societario consentito tra avvocati va individuato in quello di cui al D.Lgs. n. 96/2011, che non prevedeva la possibilità di società multidisciplinari con la presenza di professionisti iscritti in altri albi o di soci di capitale.

E’ quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione che, con la sentenza n. 19282 dello scorso 19 luglio, ha fatto chiarezza nell’intricata vicenda delle società tra avvocati, caratterizzata da un sovrapporsi di scelte legislative definite dalla stessa Cassazione “non sempre coerenti”, al punto da creare difficoltà anche ai Consigli dell’Ordine ai quali le società tra avvocati chiedono di essere iscritte. La controversia giudiziaria in questione prende le mosse proprio dal rigetto, da parte dell’Ordine degli Avvocati di Perugia, della richiesta di iscrizione da parte di una società professionale in accomandita semplice costituita da due avvocati e da un terzo socio laureato in economia, quest’ultimo con una partecipazione del 20%. Anche il successivo ricorso proposto innanzi al CNF era stato respinto sul presupposto della persistente vigenza del divieto di società multidisciplinari per gli avvocati contenuto nell’art. 5 della legge professionale (L. n. 247/2012).

Per dirimere la vertenza è stato, quindi, necessario ricorrere all’ultimo grado di giudizio, dove la questione è stata esaminata dalle Sezioni Unite. Preliminarmente, il collegio ha ritenuto necessario svolgere un accurato excursus dell'evoluzione legislativa in materia di esercizio in forma associata della professione di avvocato, ricordando che l'esercizio in comune dell'attività professionale fu regolamentato per la prima volta con la L. 23 novembre 1939, n. 1815, che consentiva l'esercizio in forma associata della professione da parte di persone abilitate, ma con l'obbligo di utilizzare esclusivamente la dizione di "studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario", seguita dal nome e cognome e dai titoli professionali dei singoli associati; ogni diversa forma di esercizio associato di attività professionale era vietato.

L'intera L. n. 1815 del 1939 è stata definitivamente abrogata soltanto dalla L. n. 183 del 2011, che ha riconosciuto, in via generale (cioè non con specifico riferimento agli avvocati), la possibilità di costituire società tra professionisti di tipo interdisciplinare, ma prima di allora a disciplinare le società tra avvocati era intervenuto il titolo II del D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, di attuazione della direttiva comunitaria 98/5/CE, stabilendo, tra l’altro, che la società tra avvocati abbia quale oggetto esclusivo l'esercizio in comune della professione da parte dei propri soci, tutti necessariamente in possesso del titolo di avvocato.

Qualche anno dopo, il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, ha eliminato in linea generale il divieto di esercizio professionale di tipo interdisciplinare. Nel frattempo era, peraltro, intervenuta la nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense, la L. n. 247 del 2012, poi modificata - per gli aspetti che interessano la questione in esame - dalla L. 4 agosto 2017, n. 124.

Nella sua formulazione originaria, la nuova legge professionale si limitava, all'art. 4, a prevedere che la professione forense potesse essere esercitata individualmente o con la partecipazione ad associazioni tra avvocati, demandando al Governo la disciplina dell'esercizio della professione forense in forma societaria nel rispetto di principi e criteri direttivi, fra i quali annoverava il principio secondo cui l'esercizio della professione forense in forma societaria sarebbe stato consentito esclusivamente a società di persone, società di capitali o società cooperative, i cui soci fossero avvocati iscritti all'albo.

Restava, quindi, esclusa la partecipazione di soci di mero investimento e di soci non abilitati all'esercizio della professione forense. Infine, la L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 141, al dichiarato scopo di garantire una maggiore concorrenzialità nell'ambito della professione forense, ha modificato le previsioni della legge di riforma dell'ordinamento forense n. 247 del 2012 sulle associazioni tra avvocati e multidisciplinari di cui all'art. 4 (eliminando il limite della partecipazione dell'avvocato ad una sola associazione) ed ha nuovamente modificato la disciplina dell'esercizio in forma societaria della professione forense inserendo nella L. n. 247 del 2012 l'art. 4-bis.

Quest'ultimo conferma l'ammissibilità delle società di persone, di capitali o cooperative iscritte in un'apposita sezione speciale dell'albo tenuto dall'ordine territoriale nella cui circoscrizione ha sede la stessa società; vieta la partecipazione societaria tramite società fiduciarie, trust o per interposta persona e prevede che "i soci, per almeno due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto, devono essere avvocati iscritti all'albo, ovvero avvocati iscritti all'albo e professionisti iscritti in albi di altre professioni; il venire meno di tale condizione costituisce causa di scioglimento della società e il consiglio dell'ordine presso il quale è iscritta la società procede alla cancellazione della stessa dall'albo, salvo che la società non abbia provveduto a ristabilire la prevalenza dei soci professionisti nel termine perentorio di sei mesi".

Completato l’excursus normativo, il collegio rileva che, con l'entrata in vigore della L. n. 183 del 2011, in tema di società tra professionisti si era determinata la coeva vigenza di due differenti cornici di riferimento, una generale e una speciale. La prima era contenuta nella L. n. 183 del 2011, che prevede la possibilità di costituire società, anche di capitali, fra professionisti (in genere) e soci non professionisti (sia pure con alcune peculiari disposizioni concernenti i rapporti fra di essi, le maggioranze all'interno della società e l'esercizio dell'attività professionale con i relativi obblighi deontologici). La seconda cornice di riferimento era quella di cui al D.Lgs. n. 96 del 2001, riferita ai soli avvocati, ritenuta ancora vigente grazie alla clausola di salvaguardia contenuta nella L. n. 183 del 2011, art. 10, comma 9 ("Restano salve le associazioni professionali, nonché i diversi modelli societari già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge.").

Ma le Sezioni Unite concludono che, in virtù del principio regolatore del conflitto di norme di pari rango secondo il quale lex posterior generalis non derogat priori speciali, doveva necessariamente darsi prevalenza alla disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 96 del 2001, con conseguente divieto di STP tra avvocati regolate dalla L. n. 183 del 2011. Infine, i termini della questione sono mutati grazie all'avvento della L. n. 247 del 2012, art. 4-bis (articolo inserito ad opera della L. n. 124 del 2017 e poi ulteriormente integrato dalla L. n. 205 del 2017), espressamente dedicato all'esercizio della professione forense in forma societaria, che, dettando una compiuta e speciale disciplina delle società tra avvocati, esplicitamente consente anche la partecipazione di soci non avvocati, seppur in misura non superiore ad un terzo del capitale sociale.

Avv. Valerio Bonolo – Area Giuridica e Legale

Altri in DIRITTO