DAL TRIBUNALE DI GROSSETO UN FORTE SEGNALE CONTRO LE DISCRIMINAZIONI SUL LAVORO
02/09/2024
Stampa la paginaNel sistema valoriale che la Cassa Forense adotta e trasmette ai suoi iscritti nel Bilancio Sociale, negli altri documenti ufficiali e nel Rapporto Annuale che presenta con il Censis sui numeri dell’Avvocatura, il tema delle Pari Opportunità è al centro delle sensibilità e degli obiettivi condivisi.
Sebbene la parità di genere venga declamata in tanti altri ambienti, il rischio latente è che, spesso, il suo rispetto si risolva in enunciazioni piuttosto che in atti concludenti.
Infatti, malgrado molte disposizioni di legge siano volte a contrastare le diseguaglianze, l’Italia è ancora lontana, secondo studi del World Economic Forum, dai Paesi più virtuosi, come l’Islanda, la Finlandia, la Norvegia.
Ecco perché una sentenza come quella del Giudice del Lavoro del Tribunale di Grosseto, che costituisce una concreta declinazione della lotta alle discriminazioni sul luogo di lavoro, ha destato tanto interesse, conquistando le prime pagine dei più autorevoli quotidiani nazionali.
Il Giudice Giuseppe Grosso ha condannato l’Amministrazione di un Comune toscano al risarcimento di danni patrimoniali e morali in favore di un’architetta che, avendo vinto una selezione pubblica per la copertura della funzione di “istruttore direttivo tecnico”, una volta convocata in Municipio per la sottoscrizione del contratto e la presa di servizio, si era vista strappare il contratto dalle mani, da parte del Dirigente dell’Area Amministrativa dell’Ente, per avere preannunciato di volere godere del congedo parentale per badare al piccolo di tre mesi, attesa la concomitante impossibilità del coniuge, impegnato ad assistere il padre ricoverato a Bologna, in fin di vita (e di lì a poco deceduto).
Il Dirigente, infuriato, lamentava che il ricorso al congedo avrebbe creato una grossa difficoltà organizzativa all’Ente ed invitava la Signora ad andarsene.
L’architetta, pur allibita dal comportamento del Dirigente, vistosi negato anche il rilascio di un attestato della sua risposta alla convocazione, aveva la prontezza di chiamare i Carabinieri e, da lì, partiva una controversia con delicati contorni penali, dagli esiti ancora pendenti, e giuslavoristici.
I legali della donna, dopo essersi rivolti alla Consigliera della Pari Opportunità della Provincia di Grosseto, il cui tentativo di conciliazione non veniva raccolto, citavano il Comune dinanzi al Tribunale competente, chiedendone la condanna per comportamento discriminatorio di genere.
Dopo le fasi processuali dell’escussione dei testi e del deposito di note, il Magistrato ha accolto il ricorso della professionista, qualificando la condotta del dirigente come atto di discriminazione diretta, ritenendo indubbio che la vincitrice della selezione non avrebbe subito tale trattamento se fosse stata un uomo.
La pronuncia in commento appone un ulteriore, significativo tassello al quadro evolutivo dell’uguaglianza di genere nel mondo del lavoro.
La sua rilevanza, nel percorso di tutela contro le discriminazioni, è irrobustita dalla peculiarità delle circostanze della vicenda e della discovery probatoria: da un lato, il Dirigente ed i suoi testi a difesa portavano idealmente l’autorità dell’ente pubblico ed agitavano lo spettro del mal funzionamento della macchina amministrativa a causa della (transitoria) defezione; dall’altro, l’architetta, nella sua “solitudine” di singola cittadina, sostenuta soltanto dalla determinazione dei suoi legali, rivendicava “il diritto soggettivo all’assunzione del vincitore di pubblico concorso“ , riconosciuto per tale dal Magistrato toscano.
Quest’ultimo ha colto pregevolmente, dalla ricostruzione del contesto ( pur nell’apparente sbilanciamento delle forze in campo), che all’architetta era stata interdetta la sottoscrizione del contratto già redatto e pronto per la firma, e che il Comune aveva poi attinto alla graduatoria con persone di categoria inferiore, esclusivamente perché la Signora aveva annunciato di intendere avvalersi del congedo parentale per le ragioni di cui sopra, così scontando il (caro) prezzo della sua condizione di donna appena uscita dalla maternità.
Il Giudice Grosso ha, pertanto, applicato fedelmente il principio di riparto dell’onere della prova in materia, che pone a carico della lavoratrice o del lavoratore l’onere di fornire elementi idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di condotte discriminatorie, e, in caso di assolvimento di tale onere, trasferisce sul datore di lavoro la necessità di provare l’insussistenza dell’intento discriminatorio.