La Corte Costituzionale disciplina le condizioni di non punibilità dell’aiuto al suicidio

di Lorena Puccetti

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Il 22 novembre 2019 la Corte Costituzionale ha depositato le motivazioni della sentenza (n. 242/2019) con la quale, nel noto caso giudiziario Cappato, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, a determinate condizioni, agevola l’esecuzione dell’altrui suicidio

La sentenza si apre con una premessa, cioè che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è di per sé in contrasto con la Costituzione, posto che proprio dai principi costituzionali, e in particolare dall’art. 2, deriva il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo.

La pronuncia esclude, inoltre, che in relazione al bene giuridico della vita sussista un generico diritto all'autodeterminazione dal quale consegua l’inoffensività della condotta di colui che agevola una persona decisa a porre fine alla propria esistenza.

Al contrario secondo la Corte, l’art. 580 c.p., pur redatto dal legislatore del 1930, assolve ancora, alla luce del vigente quadro costituzionale, allo scopo di impedire che persone in difficoltà, le quali decidano di porre in atto gesti estremi, subiscano interferenze di ogni genere. 

Svolte tali premesse, la Consulta rinviene il fondamento della decisione nel diritto della persona, tutelato dall’art. 32 della Costituzione, di rifiutare il trattamento sanitario, avvalorando il più recente approfondimento dogmatico che assegna al consenso informato del paziente valore di presupposto di liceità di qualunque intervento medico. Tale principio, di rango costituzionale, ha ispirato l’entrata in vigore della legge n. 219/2017 (c.d. legge sul biotestamento), che riconosce a ogni persona il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario anche se da ciò ne possa conseguire la morte.

Rileva dunque la Corte che l’attuale quadro normativo appare contraddittorio, posto che il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente di rifiutare il trattamento sanitario, anche se indispensabile a mantenerlo in vita, ma per converso non può mettergli a disposizione trattamenti finalizzati a provocarne direttamente la morte. 

Ne consegue che l’unico modo di cui dispone il malato tenuto in vita artificialmente per lasciarsi morire è quello di rifiutare i trattamenti di sostegno vitale avviandosi, però, a un decesso lento, quindi fonte di una nuova sofferenza per i suoi cari. In definitiva, secondo la Corte, tale divieto limita la libertà di autodeterminazione del malato, poiché gli impedisce di scegliere la terapia finalizzata a ottenere un decesso rapido.        

Così inquadrata la questione, la sentenza prosegue chiarendo i presupposti della non punibilità dell’aiuto al suicidio. In primo luogo, il paziente deve essere una persona affetta da una patologia irreversibile e tenuta in vita in modo artificiale attraverso trattamenti di sostegno vitale quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali.

La pronuncia, quindi, circoscrive i propri effetti alla condotta di aiuto al suicidio a favore di soggetti che, in base alla citata legge n. 219/2017, potrebbero già rinunciare ai predetti trattamenti vitali accedendo contestualmente alla sedazione profonda.

Pur versando in tali condizioni, però, la persona deve essere capace di prendere decisioni libere e consapevoli, previa adeguata informazione su ogni aspetto della patologia, e tale capacità deve essere accertata nelle forme e con le garanzie previste dalla predetta legge.

Ancora, al paziente deve essere garantita un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione di cure palliative previste dalla legge n. 38/2010, posto che l’eliminazione della sofferenza si presta a rimuovere la causa della volontà del paziente di morire.

La verifica di tali presupposti deve rimanere affidata soltanto a strutture pubbliche del servizio sanitario, ed è altresì richiesto l’intervento consultivo dei comitati etici territorialmente competenti al fine di garantire la tutela dei soggetti particolarmente vulnerabili.  

Da ultimo la sentenza distingue due scansioni temporali. Per i fatti successivi alla pubblicazione della sentenza l’aiuto al suicidio dovrà ritenersi non punibile purché sussistano le predette condizioni, che saranno verificate dal Giudice nel caso concreto, mentre per i fatti anteriori il Giudice dovrà verificare che l’agevolazione al suicidio sia stata prestata con modalità sostanzialmente equivalenti a quelle descritte nella pronuncia.

Tale precisazione è evidentemente destinata a riflettersi positivamente sul caso specifico dal quale ha tratto origine la questione di legittimità.

La sentenza impone alcune riflessioni sul ruolo che il Giudice costituzionale ha assunto nella vicenda in esame. Dopo aver rinviato la decisione già un anno fa sollecitando invano l’intervento del Legislatore, la Corte Costituzionale alla fine ha provveduto alla declaratoria d'illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p..

Peraltro, per evitare che tale declaratoria possa favorire in modo indiscriminato condotte di agevolazione al suicidio, creando un vuoto di tutela verso i soggetti più vulnerabili ed esposti ad altrui abusi, la Corte ha scelto la tipologia decisoria della c.d. sentenza additiva che consente di integrare la norma penale.

In tal modo la condotta di aiuto al suicidio è rimasta in via generale penalmente rilevante, con l’eccezione del caso in cui, alle condizioni indicate dalla pronuncia, un medico somministri un trattamento letale al paziente dipendente da cure di sostegno vitale. 

Si osserva, peraltro, che la sentenza in esame più che additiva appare “legislativa”, posto che la descrizione dei presupposti di non punibilità della condotta ai sensi dell’art. 580 c.p., detta la disciplina del suicidio medicalizzato. Tuttavia, non potendo la Corte Costituzionale sostituirsi in toto al Legislatore, rimangono aspetti non regolati a cominciare dall'esercizio dell’obiezione di coscienza.

Sul punto, la sentenza ha precisato che la pronuncia si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, fermo restando che in capo al medico non vi è alcun obbligo di procedere a tale aiuto. Inoltre, non sfugge che la sentenza stessa ha chiarito che sarà il Giudice a valutare nel caso concreto e, dunque, nell'ambito di un procedimento penale, la sussistenza delle condizioni che rendono non punibile la condotta del medico.

In pratica, il medico non è tenuto ad aiutare al suicidio il paziente e inoltre, qualora decida di agevolarlo, egli deve essere consapevole che l’accertamento della non punibilità della sua condotta implica comunque l’avvio di un procedimento penale. E’ evidente che questa conseguenza non sarà ininfluente sulla decisione del medico di accogliere, o no, la richiesta espressa dal paziente. 

In definitiva, all’esito della pronuncia, residuano incertezze che impongono un immediato intervento legislativo. E ciò perché la liceità della condotta del medico deve derivare direttamente da una norma specifica che preveda, in casi determinati, l’assistenza al suicidio e non dalla verifica di una causa di non punibilità, che espone chi accoglie la supplica del malato al peso e all’incognita del procedimento penale. 

 

Avv. Lorena Puccetti – Foro di Vicenza 


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