ARTICOLO 2087 C.C.: TUTELA DELL'INTEGRITÀ DEI LAVORATORI E OBBLIGO VACCINALE AI TEMPI DEL COVID-19

di Rosario Salonia

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La pandemia ha sconvolto ogni aspetto della nostra quotidianità e finanche i processi aziendali con un impatto maggiore rispetto alle innovazioni tecnologiche sinora intervenute o ad altri eventi straordinari.

Questa premessa è parte integrante delle riflessioni che seguono perché la sfera personale dei lavoratori e la sua inviolabilità hanno assunto un ruolo determinante nel dibattito sulla imposizione di un possibile obbligo vaccinale per gli stessi laddove il datore, effettuata la doverosa valutazione dei rischi, ne ravvisi la necessità per garantire la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro.

Ed invero, nel caso di specie, il SARSCoV-2 è classificato come agente patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3) ai sensi dell’art. 267, D.lgs. n. 81/2008 (cd. “TUSL - Testo Unico sulla Sicurezza del Lavoro”), ovvero la categoria che “Comprende microrganismi patogeni che possono causare malattie nell’uomo e costituire un serio rischio per i lavoratori; possono propagarsi nella comunità ma, di norma sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche”.

E’ altrettanto noto che la direttiva UE 2020/739, del 3 giugno 2020, abbia incluso il Covid-19 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche negli ambienti di lavoro.

La portata delle ricordate disposizioni del TUSL e della citata Direttiva va correlata alla previsione contenuta nell’art. 2087 c.c. che, come noto, prevede che l’imprenditore adotti

“nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”,

tuttavia tale obbligo non è di semplice assolvimento quando è implicato un patogeno di origine tuttora sconosciuta e rispetto al quale l’unica difesa sono misure di prevenzione adottate in corso d’opera e la vaccinazione a largo spettro della popolazione.

L’interpretazione e l’applicazione degli obblighi contenuti nell’art. 2087 c.c., si sono adeguate, nel tempo, ai cambiamenti della realtà socio-economica e delle dinamiche industriali ma, nonostante tale capacità di adeguamento, nell’attuale situazione emergenziale le opinioni sono discordanti.

La questione ha assunto rilevanza pubblicistica, direttamente riconducibile alla tutela approntata dall’art. 32 Cost. e, in particolare, ai precetti contenuti nei suoi primi due commi, che però vengono letti in contrapposizione tra loro:

1. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

2. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Come noto, il secondo comma dell’art. 32 Cost., ha trovato diretta applicazione durante la pandemia per una frazione del mondo del lavoro, avendo il Legislatore introdotto l’obbligo di sottoporsi alla vaccinazione per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario, confermando per gli altri lavoratori l’adesione al vaccino su base volontaria. Nonostante ciò, la Magistratura s’è vista costretta, fin da subito, ad assolvere al ruolo di interprete in una controversia inerente questo ambito disciplinato dal Legislatore tramite l'art. 4, comma 1, D.L. n. 44 del 1^ aprile 2021, convertito con modificazioni dalla L. n. 76 del 28 maggio 2021.

Ci si riferisce al caso che ha suscitato clamore nazionale e riguardava alcuni operatori sanitari messi in ferie dal datore di lavoro perché si rifiutavano di vaccinarsi. Il Tribunale di Belluno, a fronte del ricorso cautelare proposto dai lavoratori, ha statuito, in prima battuta, con l’ordinanza n. 12/2021 la legittimità della condotta assunta dalla società datrice poiché nella gestione del diritto alle ferie l’esigenza di quest’ultima di osservare il disposto di cui all’art. 2087 cc. prevale sull’eventuale interesse del dipendente di usufruire di un diverso periodo di ferie. Tale assunto è stato confermato in fase di reclamo con l’ordinanza n. 328/2021 laddove il Giudice adito ha ritenuto come “prevalente, sulla libertà di chi non intenda sottoporsi alla vaccinazione contro il Covid-19, il diritto alla salute dei soggetti fragili, che entrano in contatto con gli esercenti le professioni sanitarie”.

Il Tribunale di Modena, con l'ordinanza n. 2467 dello scorso 23 luglio, ha statuito che l'azienda può sospendere dal servizio e dalla retribuzione il lavoratore che non vuole vaccinarsi contro il Covid-19.

Se i dubbi interpretativi, dunque, possono dirsi esauriti per i lavoratori rientranti nelle categorie indicate dal ricordato D.L. n. 44 del 1^ aprile 2021, restano irrisolti per i privati che sono fuori dalla sua sfera applicativa.

Partendo dall’assunto che l’art. 2087 c.c., integrato dalle disposizioni del TUSL, pone il lavoratore sia come soggetto da tutelare sia come soggetto passivo degli obblighi di prevenzione, tra gli orientamenti giuslavoristici sorti sul punto, ad avviso di chi scrive, i preminenti sono i seguenti:

  • quello secondo cui il datore di lavoro potrebbe esigere dai lavoratori la vaccinazione contro il Covid-19, a pena di licenziamento, a prescindere dall’intervento del Legislatore in virtù del combinato disposto dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 20, D.Lgs. n. 81/2008;
  • quello secondo gli artt. 42 e 279, D.lgs. n. 81/2008 e le misure adottabili in applicazione di tali disposizioni possano essere imposte unicamente per le attività in cui l’esposizione al contagio sia configurabile come un rischio biologico specifico. Questo consentirebbe, a titolo esemplificativo, l’adibizione a mansioni diverse nel rispetto del Testo Unico o l’allontanamento temporaneo dal luogo di lavoro. In questo caso, il datore di lavoro potrà ottemperare ai propri doveri stabiliti dall’art. 18, comma 1, lettere g) e bb), del D.Lgs. n. 81/2008 assicurandosi che il medico competente rilasci il giudizio di idoneità, tenendo conto, nell’affidare i compiti ai lavoratori, “delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e sicurezza”;
  • quello secondo cui l’art. 2087 c.c., letto in combinato con le disposizioni del D.Lgs. n. 81/2008, non soddisferebbe la riserva costituzionale posta dall’art. 32 Cost. di talché l’obbligo di vaccinazione non potrebbe essere imposto al lavoratore se non a fronte di una norma che lo preveda espressamente, senza esigenze interpretative, così come è stato con il già citato Decreto Legge. Ed invero, la posizione assunta dal Tribunale di Belluno con la prima ordinanza, con la quale è stato statuito che l'obbligo possa scaturire dall'art. 2087 c.c., resta molto controversa, fermo che affinché un trattamento sanitario obbligatorio possa essere imposto, è necessario che vi sia una legge a prevederlo (riserva di legge), e che tale legge, da un lato, imponga trattamenti sanitari determinati e non mai un generale obbligo di curarsi e mantenersi in buona salute e, dall’altro, non violi la dignità e la libertà della persona.

Chiarito quanto sopra, non vi è dubbio che in capo al datore si fonda un obbligo di continuo aggiornamento degli standard di prevenzione da adottare quali le misure generiche di prudenza e le cautele necessarie a tutelare l’integrità del prestatore di lavoro, anche in mancanza di specifiche misure di prevenzione normativamente previste. Nel caso di specie, siamo testimoni, giorno dopo giorno, di come queste misure si siano inserite nel contesto lavorativo tramite l’utilizzo di gel sanificanti, mascherine, barriere in plexiglas, etc..

Il trattamento sanitario obbligatorio, a dispetto delle misure di cui sopra, prevede un requisito normativo ulteriore che si sostanzia anche nell’interesse di difendere la salute collettiva, perché proprio solo l’esigenza pubblicistica di tutelare la dimensione collettiva della salute può legittimare il sacrificio della sua dimensione individuale tramite l’imposizione di trattamenti sanitari.

E’ di questi giorni il dibattito, piuttosto acceso, sulla soluzione di imporre, anche sui luoghi di lavoro, l’obbligo di essere in possesso del c.d. “Green pass” e, a breve, dovrebbe essere emanato un apposito decreto in tal senso; questa potrebbe essere una soluzione al pari di quella adottata per accedere in alcuni ambienti di lavoro, come ad esempio il tesserino in corso di validità per poter avere libero accesso a tutto il sedime aeroportuale.

In tale contesto, ad esempio, il ritiro del tesserino per l’accesso alla zona doganale è un provvedimento amministrativo ed il nuovo rilascio è sottoposto a varie autorizzazioni delle competenti autorità, quindi a soggetti estranei al datore di lavoro, con procedure collaterali alla costituzione del rapporto di lavoro, assoggettate ad ampia discrezionalità ed alla completa affidabilità del destinatario.

Al pari che per il ritiro del tesserino aeroportuale, si potrebbe sostenere che il mancato rilascio del Green pass vaccinale, costituisce una

“sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa dovuta ad un evento estraneo al rapporto di lavoro [che] autorizza il datore di lavoro a recedere dal rapporto stesso, ai sensi dell’art. 1464 c.c. in mancanza di un suo interesse apprezzabile alle future prestazioni lavorative, la sussistenza o meno del quale deve essere accertata, con valutazione ex ante, in riferimento alla prevedibilità del protrarsi della causa dell’impossibilità di esecuzione della prestazione e del tempo occorrente per il suo venir meno, nonché dei pregiudizi derivanti all’organizzazione del lavoro” (Cass. n. 1591/2004, C. App. Roma, 8479/2009 citata, C. App. Roma, n. 2447/2009 del 28 dicembre 2009, Est. Dr.ssa Di Sario).

Non resta che attendere, quindi, l’evoluzione normativa in materia e gli orientamenti giurisprudenziali che verranno a formarsi.

Avv. Rosario Salonia - Foro di Roma


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