UN EMBRIONE È PER SEMPRE

di Lorena Puccetti

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Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha riconosciuto il diritto della donna di impiantare l’embrione anche contro la volontà dell’ex marito

Ha suscitato scalpore una recente decisione del Tribunale di Santa Maria Capua Venere che ha riconosciuto il diritto della donna di utilizzare gli embrioni conservati anche dopo la separazione dal coniuge.

La vicenda riguarda una coppia che dopo aver intrapreso la procreazione medicalmente assistita, nel corso della quale   il primo tentativo di impianto era fallito, si era poi separata. Pur a fronte della contrarietà espressa dall’ormai ex marito, la donna si era rivolta al giudice per ottenere l’autorizzazione ad impiantare gli embrioni a suo tempo rimasti in provetta e congelati.  

Per comprendere i termini della questione è opportuno richiamare brevemente i principi fondamentali della legge 19 febbraio 2004 n. 40 che ha introdotto le norme in materia di procreazione medicalmente assistita.

In primo luogo, l’art. 5 dispone che possono accedere a tali tecniche «coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».

L’art. 6 regolamenta gli aspetti relativi al consenso informato prevedendo che alla coppia siano fornite adeguate informazioni in relazione ai vari aspetti, anche giuridici, della procedura. In particolare l’art. 6, comma 3, stabilisce che «la volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell’ovulo». 

E’ proprio sulla base della irrevocabilità del consenso che il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha stabilito il diritto della donna di impiantare nell’utero gli embrioni che nel corso della procedura erano rimasti congelati, nonostante l’opposizione dell’ex marito.

Anche se la decisione si fonda sulla lettura del predetto art. 6, non si può non osservare come l’attuale quadro normativo presenti aspetti problematici.

La citata legge n. 40 era nata con la finalità di consentire alla coppia che non potesse avere figli di accedere alla procreazione assistita nell’ambito di una procedura da svolgersi in un contesto temporale definito. Infatti, l’art. 14, co. 2, con l’eccezione dei casi in cui vi fossero gravi problemi di salute della donna, di regola vietava la formazione di un numero di embrioni superiore a tre e la crioconservazione degli stessi.

La violazione di tale divieto era penalmente sanzionata in base all’art. 14, co. 6.   

Su tale aspetto è intervenuta la Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 151 del 2009, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 14 nella parte in cui limita la formazione degli embrioni ad un numero non superiore a tre.

Con una successiva sentenza, la n. 97 del 2010, la Corte ha ribadito che, quale logica conseguenza della caducazione del divieto di formazione di un numero di embrioni superiore a tre, è venuto meno anche il divieto di crioconservazione.

A seguito di tali pronunce, la creazione di embrioni destinati ad essere congelati e conservati è divenuta lecita.          

E’ evidente, però,  che la possibilità di formare embrioni in numero superiore rispetto a quelli che vengono immediatamente utilizzati, può dar luogo a situazioni che non erano previste nell’impianto originario della legge.

Ad esempio, si è posto il problema se la donna rimasta vedova possa ottenere il  trasferimento intrauterino degli embrioni congelati prima della morte del marito.

Tale richiesta è stata accolta da una sentenza del 24.6.2019 del Tribunale di Lecce sul rilievo che «essendo già avvenuta la fecondazione dell’ovulo deve ritenersi del tutto irrilevante ogni profilo circa la permanenza o meno del consenso da parte del coniuge poi deceduto». 

Inoltre, come precisato, nella richiamata sentenza, deve essere riconosciuto il «diritto della donna ad ottenere, sempre, il trasferimento degli embrioni crioconservati indicato dalle linee guida del 2015».

A ciò si aggiunga che l’art. 1 della legge n. 40 afferma che il ricorso alla procreazione assistita deve assicurare «i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito».

In definitiva, la sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere appare in linea con la precedente elaborazione giurisprudenziale ed è al contempo rispettosa del principio della tutela della vita prenatale

Rimane comunque il dubbio che tale impostazione non rifletta le intenzioni della legge n. 40 che, come si desume dai requisiti soggettivi indicati dall’art. 5, era pensata per le coppie coniugate o conviventi e non per i singoli soggetti. 

Non si dubita che meriti tutela il diritto della donna di utilizzare l’embrione anche al di fuori di una relazione coniugale o di convivenza.

Tuttavia, la questione coinvolge anche i diritti del padre oltre che quelli del nascituro posto che, in base all’art. 8, i nati con le tecniche di procreazione assistita assumono automaticamente lo stato di «figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime».        

Pertanto, appare necessario un intervento legislativo volto ad apportare quelle precisazioni che si rendono necessarie all’esito delle sentenze della Corte costituzionale. E ciò perché l’art. 6 si limita a  disciplinare il consenso alla formazione degli embrioni e non al loro congelamento, che anzi era ab origine vietato.

Dopo l’intervento della Corte Costituzionale, oggi si può esprimere la volontà di crioconservare gli embrioni sulla base di protocolli volti alla acquisizione del consenso informato anche in relazione a questo specifico aspetto. Tuttavia, deve essere una fonte normativa primaria, e non le linee guida, a chiarire all’uomo che acconsente al congelamento degli embrioni che si sta assumendo un obbligo genitoriale la cui futura attuazione è rimessa esclusivamente alla volontà della donna. Un impegno a tempo indeterminato che né la separazione, e nemmeno la morte, faranno venire meno. 

Avv. Lorena Puccetti – Foro di Vicenza


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