RIFORMA CARTABIA: NON CI RESTA CHE ATTENDERE

di Lorena Puccetti

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Con la definitiva approvazione della Riforma Cartabia entra in vigore l’improcedibilità dell’azione penale

Il 24 settembre è stato definitivamente approvato dal Senato il disegno di legge n. 2353 contenente la «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti penali».

Il provvedimento in larga parte contiene i criteri direttivi ai quali dovranno attenersi i decreti legislativi che saranno emanati entro un anno dall’entrata in vigore della legge.

Tale delega prevede, fra l’altro, un piano mirante a rendere più spedita la giustizia penale attraverso la digitalizzazione e le tecnologie informatiche e la predisposizione di una disciplina organica per la giustizia riparativa.

Oltre ai princìpi della delega, la legge dispone alcune modifiche al codice penale e di procedura penale immediatamente prescrittive, a cominciare dall’introduzione della improcedibilità dell’azione penale.

Subito operative sono, altresì, le misure previste dal c.d. Codice Rosso ed in particolare l’inserimento dei delitti di cui agli artt. 387 bis, 572 e 612 bis c.p. nel novero delle ipotesi che impongono l’arresto in flagranza ex art. 380 c.p.p.

Ciò premesso e concentrando l’attenzione sulle innovazioni finalizzate al restringimento dei tempi del processo, si segnala in primo luogo che la delega prevede la riduzione dei termini di durata delle indagini preliminari che di regola saranno di sei mesi per le contravvenzioni, un anno per i delitti e un anno e mezzo per i delitti più gravi di cui all’art. 407, 2 co., c.p.p.

È inoltre previsto un potere di controllo giurisdizionale sulla durata delle indagini preliminari con la possibilità che, su richiesta motivata dell’interessato, il giudice possa retrodatare l’iscrizione nel registro dei reati del nome dell’indagato «nel caso di ingiustificato e inequivocabile ritardo».

Al fine di evitare la celebrazione di processi inutili, la delega dispone la modifica della regola di giudizio, prevedendo che il pubblico ministero chieda l’archiviazione e che il giudice dell’udienza preliminare pronunci sentenza di non luogo a procedere «quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna». 

In una prospettiva deflattiva è data delega per l’ampliamento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p. e della sospensione con messa alla prova dell’imputato, che potranno essere applicate per reati la cui pena detentiva edittale non supera, rispettivamente, nel minimo i due anni e nel massimo i sei anni. 

In tema di applicazione della pena su richiesta delle parti si evidenzia che, sfumato l’auspicato aumento dei limiti di pena oggetto di trattativa fra accusa e difesa, almeno si prevede che anche il patteggiamento c.d. allargato possa estendersi alle pene accessorie.

In tutti i casi, inoltre, il patteggiamento potrà riguardare l’oggetto e l’ammontare della confisca facoltativa, fermo restando che l’espansione normativa di ipotesi di confisca obbligatoria ha reso quella facoltativa una misura ormai residuale. 

Un aspetto dolente dei criteri di delega attiene alle impugnazioni posto che l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento è stata circoscritta ai reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa nonché alle sentenze di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità.

Si prevede, inoltre, che la celebrazione del giudizio di appello avvenga con rito camerale non partecipato, salvo che la parte appellante o l’imputato chiedano di partecipare in presenza. In secondo luogo, si limita la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ai soli casi di prove dichiarative assunte nel giudizio di primo grado.

In pratica, la legge delega assume il giudizio cartolare a modello dell’appello.

Del pari, facendo della legislazione pandemica un principio ispiratore, la trattazione dei ricorsi per Cassazione sarà con contraddittorio scritto senza l’intervento dei difensori, fatta salva la richiesta delle parti di discussione orale in pubblica udienza o in camera di consiglio partecipata.   

Fra le disposizioni già prescrittive vi è l’introduzione della controversa figura della improcedibilità dell’azione penale. Va premesso che la nuova legge, recependo uno dei princìpi cardine della riforma Bonafede, ha aggiunto l’art. 161 bis c.p. dal titolo “cessazione del corso della prescrizione”, il quale sancisce che «il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente con la pronunzia della sentenza di primo grado».

L’autonoma collocazione topografica, con contestuale abrogazione dell’art. 159, 2 co., sottolinea che si tratta di una causa di cessazione definitiva e non di sospensione della prescrizione. L’improcedibilità serve dunque a temperare il rischio che il blocco della prescrizione favorisca il dilatarsi dei tempi del processo nella fase delle impugnazioni.

A tale scopo è stato inserito l’art. 344 bis c.p.p., in base al quale la mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni, e di quello di cassazione entro un anno, costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale.  

Tuttavia, il giudice procedente, quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, può prorogare tale termine per un periodo non superiore a un anno in fase d’appello e a sei mesi in cassazione.

Peraltro, per i delitti aggravati dal metodo o dall’agevolazione mafiosa di cui all’art. 416 bis.1 c.p. possono essere concesse ulteriori proroghe fino a un periodo massimo di tre anni per l’appello e un anno e sei mesi per il giudizio di cassazione.

Per determinati reati indicati nell’art. 344 bis – ovvero quelli commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale o nell’ambito di associazioni mafiose, ed inoltre quelli di violenza sessuale aggravata o di gruppo e di traffico di stupefacenti – le proroghe possono invece essere concesse senza limiti di tempo.  

È prevista una disciplina transitoria in base alla quale le disposizioni in tema di improcedibilità si applicano solo nei procedimenti di impugnazione relativi a reati commessi dal 1° gennaio 2020, data di entrata in vigore della legge n. 2/2019 che aveva introdotto il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.

Per evitare la scure sui processi attualmente pendenti dopo il primo grado, è stabilito che nei procedimenti nei quali l’impugnazione è proposta entro il 31 dicembre 2024 i termini di improcedibilità sono di tre anni per l’appello e di un anno e sei mesi per il giudizio di cassazione. 

In definitiva, la riforma appare inidonea a risolvere il problema attuale, e urgente, della lentezza dei processi. Al fine di alleggerire il carico giudiziario, in luogo dell’ormai improcrastinabile amnistia, si prevede un meccanismo in base al quale «nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge», gli uffici del pubblico ministero dovranno individuare «criteri di priorità trasparente» al fine di «selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre».

Si tratta di una soluzione che, oltre a generare situazioni non egualitarie, è contraria al principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale. Inoltre, si è sovrapposta alla prescrizione, che comporta l’estinzione del reato in base a parametri certi e prefissati, l’improcedibilità dell’azione penale la quale è rimessa, in misura maggiore o minore a seconda della tipologia di reato, alla proroga del termine a discrezione del giudice.

Per inciso, tale “estinzione processuale” travolge non solo la sentenza di condanna ma anche quella di assoluzione.

Forse si assisterà a una effettiva riduzione dei tempi del processo quando, attraverso i decreti delegati, la riforma troverà complessiva attuazione, ma per il momento non ci resta che attendere. Peccato che, mai come in questo caso, l’attesa è essa stessa il dispiacere. 

  

 


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