Perentorietà del termine di notifica del ricorso e del decreto di fissazione della data di udienza.

di Marcello Bella

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Pertanto, aderendo ai principi sopra esposti, la Corte d’Appello di Roma ha dichiarato l’improcedibilità dell’appello nel caso esaminato essendo stata richiesta la notifica all’appellato del ricorso e del decreto del presidente di fissazione della data di udienza oltre i dieci giorni previsti dall’art. 435, comma 2, c.p.c..



Alla luce di quanto sopra, merita una breve riflessione la pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite del 30 luglio 2008, n. 20604, fatta propria dalla Corte d’Appello di Roma. Orbene, la questione è stata devoluta alle Sezioni Unite ai sensi  dell'art. 374  c.p.c.,  comma 3, con ordinanza della  Sezione Lavoro, che aveva ritenuto che andasse  rimeditata - alla stregua della  introduzione fra i principi  costituzionali di quello  della  "ragionevole  durata del processo"  -  la  statuizione giurisprudenziale (Cass., Sez. Un., 29 luglio 1996 n. 6841 e Cass., Sez. Un.,  26 ottobre 1996  n. 9331)  secondo cui  nei  processi assoggettati al rito speciale del lavoro, la  proposizione dell'appello  e/o dell'opposizione a  decreto  ingiuntivo si perfeziona con il deposito del ricorso, per cui i  vizi della  sua notificazione  al  resistente  e/o all'opposto non si comunicano all'atto di impugnazione e/o di opposizione all'ingiunzione, dovendo il giudice assegnare al ricorrente un nuovo termine, necessariamente perentorio, entro il quale rinnovare la notifica.
Ciò posto, va rilevato che, nella giurisprudenza  di  legittimità, il  principio  della "ragionevole durata" del  processo è divenuto punto costante di riferimento nell'ermeneutica delle norme processuali e nell'individuazione del loro ambito applicativo. Ed infatti, se si intende  ricercare un filo conduttore comune ai più recenti  arresti giurisprudenziali delle Sezioni Unite, ben lo si può riscontrare in una lettura del dato normativo che, seppure nel doveroso rispetto della lettera delle singole norme scrutinate,  privilegia opzioni ermeneutiche avversanti ogni inutile e perdurante appesantimento  del giudizio al  fine  di approdare, attraverso la riduzione  dei  tempi della giustizia, ad un processo che risulti anche "giusto".
Né può di certo trascurarsi - per escludere che l'art. 111 Cost., comma 2, abbia una portata meramente declamatoria -  la considerazione che la regola della "ragionevole durata" del processo ha assunto un valore sopranazionale alla stregua dell'art.  6  della Convenzione europea dei diritti dell'uomo - così 


come  applicata dalla  Corte europea - che ha fissato dei principi anche sui criteri da utilizzare, nella liquidazione dell'equo indennizzo per la violazione della suddetta regola; criteri vincolanti anche nel nostro ordinamento (durata del processo dall'inizio sino alla formazione del giudicato; complessità della controversia; comportamento delle parti; condotta dell'autorità) e che risultano recepiti dalla L.  24 marzo  2001,  n.  89, art. 2.
Nel quadro dell'ordinamento processuale, sul quale ha operato il disposto dell'art. 111  Cost., comma 2, la fattispecie di che trattasi investe la problematica riguardante i limiti dell'effetto sanante dell'art. 291 c.p.c. e, più in generale, l'ambito di operatività di tale norma. L'evoluzione del quadro giurisprudenziale, nonché  la  rilevanza che in  detta evoluzione ha assunto la costituzionalizzazione del principio di cui all'art. 111, comma 2, Cost. inducono a ritenere inapplicabile anche nel rito del lavoro - e non estensibile neppure in via analogica - a fronte di una notifica inesistente (giuridicamente o di  fatto) un sistema  sanante  quale quello apprestato dall'art. 291 c.p.c. e, conseguentemente, portano al superamento dell'indirizzo giurisprudenziale innanzi citato che - sull'assunto del perfezionamento dell'atto di impugnazione ai sensi dell'art. 435 c.p.c., con il solo deposito del ricorso nei  termini  previsti dalla  legge  nella  cancelleria  del giudice ad quem - ha statuito che il giudice d'appello che rilevi qualsiasi  vizio  della  notifica o anche  la  sua  inesistenza deve indicarlo all'appellante ex art. 421 c.p.c. e deve assegnare allo stesso,  previa fissazione di un’altra udienza di discussione,  un termine  necessariamente perentorio per provvedere a  notificare il ricorso unitamente al decreto presidenziale di fissazione  di nuova udienza.
Nel  processo del  lavoro si è indubbiamente in  presenza di  un sistema, caratterizzato da una propria fase iniziale, incentrata sul deposito del ricorso, che è suscettibile di effetti prodromici e preliminari, suscettibili però di stabilizzarsi solo in presenza di una valida vocatio in ius, cui non può pervenirsi attraverso l'applicazione degli  artt.  291 e  415  c.p.c.,  giacché


non  è pensabile  la  rinnovazione di un atto mai compiuto o  giuridicamente inesistente, non esistendo una disposizione che consenta al giudice di fissare un termine per la notificazione, mai effettuata, del ricorso e del decreto presidenziale, e non essendo consentito, nel silenzio normativo, allungare - con condotte omissive prive  di valida giustificazione e talvolta in modo sensibile, come nel caso in esame  - i tempi del processo sì da disattendere il principio  della sua "ragionevole durata".
Ne consegue che il ricorso dell'appellante, anche se valido, perde la sua efficacia di fronte alla invalidità degli atti successivi che non sia possibile risanare sicché l'appello stesso, in caso di tardiva notifica del ricorso e del pedissequo decreto di fissazione di udienza, va dichiarato improcedibile.
L’orientamento  innanzi illustrato, oltre a trovare un ulteriore conforto in una scissione degli effetti tra fase di deposito dell'atto di impugnazione (o dell'opposizione al decreto ingiuntivo) e fase di notificazione del ricorso-decreto - che ricalca, in qualche misura e con le dovute differenze stante le fattispecie a confronto, la  scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il suo destinatario, correlata dal giudice delle leggi al principio di ragionevolezza ed al rispetto dei rispettivi interessi (cfr. Corte Cost. 26 novembre 2002 n. 477) - risulta obbligato in ragione di una doverosa interpretazione "costituzionalmente orientata del dato normativo", in applicazione del dictum delle stesse Sezioni Unite, secondo cui la costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo impone all'interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo per cui ogni soluzione che si adotti  nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo  svolgimento  del processo, "deve  essere verificata non solo sul  piano  tradizionale della sua coerenza logico-concettuale ma anche, e soprattutto, per il suo  impatto operativo sulla realizzazione di  detto obiettivo costituzionale" (cfr. sul punto in motivazione: Cass., Sez.  Un.,  28 febbraio 2007 n. 4636 cit.).
Quanto sopra illustrato vale, a fortiori, anche per i ricorsi giudiziari di primo grado, perché non vi è ragione di ritenere che, se tale è l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sull’art. 435, comma 2, c.p.c., lo stesso principio non possa trovare applicazione con riferimento all’art. 415, comma 4, c.p.c., il che può avere conseguenze giuridicamente irrimediabili nel caso di impugnazione di una cartella esattoriale contenente richieste di versamenti contributivi, stante, in tal caso, il termine perentorio normativamente previsto per l’impugnazione della cartella.


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